Rinegoziazione del debito, grandi opere, riforma fiscale e protezionismo. Oltreoceano le chiamano “Trumponomics” sulla scia della definizione utilizzata dal The Economist, che il 28 settembre 2015 – giorno in cui Donald Trump ufficializzò le proprie proposte in materia di politica fiscale – le bollò come “fantasia“. Sono le misure con cui il miliardario newyorkese sta promettendo agli americani la rinascita economica degli Stati Uniti.
“Come si può perdere denaro gestendo un casinò?” è stata una delle provocazioni di Hillary Clinton, rivolta a colui che, avendo conquistato il numero necessario di delegati, è il candidato repubblicano in pectore alla presidenza degli Stati Uniti. Ebbene il magnate americano nel corso della sua carriera è ricorso quattro volte al Chapter 11, ovvero la procedura prevista dal Bankruptcy Code statunitense (equivalente alla legge fallimentare), e finalizzata a un piano di riorganizzazione simile al concordato preventivo ma volto alla conservazione dell’attività dell’impresa in crisi. Taj Mahal nel 1991, Trump Castle Associates nel 1992, Trump Hotel & Casino Resorts nel 2004 e Trump Entertainment Resorts nel 2009 sono state le società sottoposte a ristrutturazione dal tycoon, che ha difeso la sua disinvoltura nell’utilizzo delle leggi e ripagando solo in parte i suoi creditori, affermando che “non erano delle persone dolci e gentili, ma dei veri e propri assassini”. Di se stesso, invece ha detto alla Cnbc: “Sono il re del debito, lo amo, ho chiesto prestiti sapendo che sarebbero potuti essere rimborsati a sconto. Sono stato spericolato, e mi è andata bene”.
Nonostante il suo amore per il debito, Trump vede con preoccupazione l’ammontare di 19.150 miliardi di dollari che costituisce il debito americano, e teme un rialzo dei tassi: “Se i tassi di interesse salissero dell’1%, sarebbe devastante. Cosa accadrebbe se i tassi salissero di 2, 3, 4 punti? Non avremmo più un Paese”. Ma per Trump la rinegoziazione del debito è tutt’altro che un tabù, e una volta eletto, nel caso in cui l’economia Usa crollasse, si è dichiarato pronto a trovare un accordo con i creditori. La possibilità sta già creando incertezze negli investitori di tutto il globo, dal momento che i titoli del Tesoro americani sono considerati tra gli asset più sicuri e benchmark per la valutazione di altre attività. Tuttavia Trump, che è favorevole a una politica di bassi tassi d’interesse, non ha chiarito in che modo potrebbe rinegoziare il debito americano, che per l’88% scade entro i dieci anni, se i T-bond con scadenza trentennale pagano oggi un interesse del 4,5%. Un valore che, secondo la Trumponomics, costringerebbe Washington al default immediato, probabilmente solo rinviato attraverso la creazione di una massiccia inflazione. “Non puoi andare in default perché stampi denaro”, è stata l’improbabile argomentazione del candidato repubblicano. La riduzione del potere d’acquisto del dollaro avrebbe una profonda ricaduta sulla classe media americana, già fortemente sollecitata e molto critica con la gestione Obama.
E così la ricetta di Trump si basa su altri ingredienti: un imponente piano per la costruzione di infrastrutture e grandi opere, una profonda riforma fiscale e protezionismo spinto. “Se facciamo correttamente quello che dobbiamo, possiamo creare il più grande boom economico del nostro Paese da tempi del New Deal”, ha scritto nel suo libro Crippled America. Il progetto viene descritto come un “piano di ricostruzione da un trilione di dollari”, che porterebbe alla creazione di 13 milioni di posti di lavoro. Trump si affida ai calcoli di Moody’s. L’agenzia di rating, come riportato nel libro, afferma che ogni investimento di 1 dollaro in strade e scuole genererà un ritorno di 1,44 dollari nell’economia. “Sarà una politica espansiva, che nel lungo periodo si ripagherà da sola”, scrive Trump.
Secondo le posizioni del magnate, questo piano non sarà finanziato da nuove entrate fiscali. Piuttosto, dopo aver più volte cambiato orientamento, Trump promette di eliminare le imposte federali sul reddito per chi guadagna meno di 25.000 dollari (50.000 per le coppie sposate), di portare l’aliquota più alta dal 39,6% al 25% e di tagliare le tasse alle imprese portandole dal 35 al 15%. La riforma ipotizzata inizialmente, secondo il think tank Tax Foundation, avrebbe consegnato 10 trilioni di dollari di deficit in più al Paese nel prossimo decennio, ma nemmeno l’ultima revisione sembra riuscire a coprire le necessità di bilancio.
Trump punta forte sul protezionismo, dichiarando guerra alla Cina e alle aziende a stelle e strisce che decidono di delocalizzare: i loro prodotti, se poi venduti in America, subiranno una tassazione del 35%, secondo Trump un disincentivo così forte da costringerle a rimanere sul suolo americano salvaguardando i posti di lavoro dello Zio Sam. Dunque, se i programmi sanitari non verranno ritoccati, e le spese militari potrebbero subire più di qualche incremento, il protezionismo e la solita promessa di ridurre gli sprechi appaiono un po’ poco per trovare la quadratura dei conti della sfaccettata piattaforma programmatica del magnate americano. Ma forse poco importa all’impaurito popolo americano che, secondo un sondaggio di Pew Research, ritiene per il 46% che la vita sia peggiore oggi che negli anni 60, a fronte del solo 34% che la giudica migliore. Con i casinò si può perdere, ma poi anche ripartire e vincere. È sempre il solito sogno americano, oggi è la scommessa del populista Trump.