Sfatare i pregiudizi dell’immaginario collettivo è impresa assai ardua; azzardata quando parliamo di Colombia, e soprattutto di Cali, la terza città più grande del Paese. Eppure ciò che ho visto e sentito, percorrendo da Nord a Sud la metropoli, contraddice i luoghi comuni. Tranne che nei barrios de Oriente, dove la miseria estrema polverizza l’umanità.
Orgoglio e pregiudizio
Secondo i giornali, Palmira, un centro agricolo a 20 km. dall’aeroporto, occupa la 8° posizione mondiale di morti ammazzati, 70 ogni 100.000 abitanti. Cali, capitale della Valle del Cauca è 10° con circa 1.600 omicidi annui, 64 ogni 100.000, su un totale di 2.400.000. Prima Caracas, seguita a ruota da San Pedro Sula in Honduras, San Salvador e Juárez, Messico. Cali y Palmira.webloc Per farmi un’idea sulla veridicità di tali asserzioni, dopo aver percorso le vasche turistiche del centro, Boulevard del Rio e Barrio Sanantonio, presidiate giorno e notte da polizia e guardie giurate, ho oltrepassato le colonne d’Ercole. Già alle spalle del viale che costeggia il fiume, costellato di stucchevoli statue di gatti, la realtà della casbah di Plaza Caceido schiaffeggia sonoramente: vecchine e muchacos vendono minuti di chiamata dai loro paleolitici Nokia, a 200 COP (colombian pesos) l’uno. Il cambio
1 dollaro = 2.800 COP. I baracchini degli ambulanti sono talmente fitti sul marciapiede, che occorre dribblarli per passare.
Sulla piazza arroventata ha sede Titan, l’ufficio cambi, dove si svolge la routine quotidiana: bruschi come secondini, gli impiegati, prima di accettare i soldi, prelevano passaporti e impronte, sottoponendo i clienti a un vero e proprio interrogatorio, riguardo provenienza, luogo di soggiorno e recapito dell’hotel in questione per accertamenti. La trafila dura quasi un’ora. Addio guanti bianchi, con i quali ci hanno manipolato prima. Tanto vale allora, infilare i tagli grossi sotto la suola delle scarpe e pedalare fuori. Se vi sfilassero anche quelle, potreste sempre consolarvi con i miasmi inferti al rapinatore, dopo ore di cammino a 32° di media.
Carrera 66 e pandillas
Alla fine della Quinta Avenida, schivando il traffico senza regole, si arriva a Sud, Calle 66, la più trasgressiva, dicono. Licorerie a ogni angolo, offrono un saggio alcolico della socialità colombiana, dove nel weekend comitive di giovani invadono i prati circostanti, tracannando fiaschette di aguardiente al gusto d’anice o in alternativa Marquis de Sade, il rum di Cali. Rumba, salsa ma anche rock, le offerte musicali dei locali, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Niente di peccaminoso comunque. Non lontano da qui, dopo il parco El Limonar, si procede verso Oriente, nel distretto di Agua Blanca, dove imperano le pandillas, le gang dei trafficanti di droga.
Dopo l’estradizione negli States di Rodríguez Orejuela, leader del cartel de cali, nemico storico di Pablo Escobar, fondatore del cartello di Medellin, i traffici sono nelle mani di schegge impazzite, senza uno specifico boss di riferimento.
I quartieri orientali di Potrerogrande, Mojica, El Retiro, Siloé, Beltràn, Petecuy, ect. contano oltre 1.200.000 abitanti, circa la metà di Cali. Ancora oggi, quaggiù non arrivano mezzi pubblici, carenti fognature e allacci elettrici. I servizi sociali, sono svolti in gran parte dalle Ong, lo Stato gira la testa dall’altra parte.
Qui, come a Sucre ed El Calvario a centro città, avvengono 2/3 degli omicidi. Oltre alla droga, il business che conta è la monnezza.
Di notte, formiche umane procedono alla cernita dei rifiuti, e al riciclaggio dei materiali utili, metalli, carta, stracci, legname.
Senza sosta, fino all’alba. Qui vivono anche i desperados emigrati da La Guajira a Nord-Est del Paese dove, secondo la denuncia di aporrea.webloc la miniera di carbone di El Cerrejon ha depauperato le risorse, prosciugando in parte il fiume, così contribuendo alla morte per malnutrizione di 14.000 piccoli indios de l’etnia Wayùu, una delle più antiche. Costoro ingrossano la manovalanza pagata sotto il salario medio, che è di circa 300 dollari mensili. Gli splendidi murales esposti a Sanantonio, raccontano questa triste storia.
La pace agognata
L’armistizio finale firmato a l’Havana, da il presidente Manuel Santos, e il capo delle Farc Rodrigo Londoño Echeverri, alla presenza di Raul Castro, non illude più di tanto la gente; in primis, per la recrudescenza delle ostilità da parte di Eln (Esercito Liberazione Nazionale) la frangia marxista rivale di Farc, che ha spinto Santos a fissare un limite di 8 mesi, entro i quali, secondo InSight Crime, il processo di pace dovrà essere concluso, pena la ripresa delle azioni militari. C’è poi il problema dei campi di coca, da riconvertire con sussidi governativi; un investimento enorme, senza contare che il mancato introito della catena di produzione per cocaleros e guerriglieri, i quali guadagnano 450 dollari ogni chilo prodotto, penalizzerebbe un numero elevato di persone.
Nel frattempo, diversi gruppi Farc continuano le loro attività ai confini con l’Ecuador. A Sucumbíos, dove la piaga dei sequestri non è ancora sanata, ed Esmeraldas, approfittando anche del caos post-terremoto. Persiste la volontà della maggioranza colombiana, che vuole farla finita con la guerra, dopo 260.000 morti e 7 milioni di persone da indennizzare. Nel periodo trascorso a Cali, non ho mai ricevuto offerte di cocaina, né sono stato adescato da una prostituta.
Queste lavorano su internet, attraverso siti on line che ospitano il mercimonio a pagamento, e a Panama, dove operano dentro hotel di lusso. Emanciparsi dalla pessima fama che contraddistingue il Paese, e Cali in particolare, è l’obiettivo primario della cittadinanza.
da Cali, foto dell’autore