Pasquale Sansone, barese, lavora al Memorial Sloan Kettering Cancer Center Hospital. Negli Usa, dice, l'età non conta: "Che tu abbia 25 o 50 anni dipende tutto da te. Il rischio di fallire è alto e c'è competizione". Ma soltanto oltreoceano è riuscito a realizzare il suo sogno. Ecco perché
“Voglio fare lo scienziato da quando sono piccolo e a New York ho coronato il mio sogno”. Per riuscirci, però, Pasquale Sansone ha lavorato duro. Nato a Bari 35 anni fa, terminato il liceo si trasferisce a Bologna per studiare Farmacologia. Dopo la laurea inizia il dottorato, ma parallelamente porta avanti il lavoro da ricercatore in un laboratorio dell’ospedale Sant’Orsola.
È qui che il suo studio sul tumore mammario muove i primi passi, per poi raggiungere l’America. “Alla fine del dottorato il mio professore mi disse che potevamo continuare il nostro lavoro sull’ormone responsivo – racconta a ilfattoquotidiano.it -, ma a un certo punto sono finiti i fondi e mi hanno proposto di continuare oltreoceano”.
Pasquale si mette alla ricerca di un laboratorio che si occupi dello stesso tema e ne trova uno a New York: “Il mio attuale capo mi ha offerto il posto senza nemmeno conoscermi – ricorda -, sapeva soltanto del lavoro che avevo svolto fino a quel momento”. Così, un giorno di sette anni e mezzo fa, Pasquale arriva al Memorial Sloan Kettering Cancer Center Hospital di New York: “Tutti mi avevano descritto la città come un mostro – ricorda. E’ vero, non è semplice viverci, ma io mi sono trovato benissimo fin da subito”.
Sul lavoro, invece, le differenze sono evidenti: “In Italia si lavora in una squadra, non c’è competizione – spiega -, qui invece c’è una centralizzazione delle risorse e per ottenerle ti devi fare in quattro”. Insomma, sei tu e il tuo obiettivo: “E’ proprio così, non si può mai abbassare la guardia – ammette – anche perché fino a 50-60 anni l’idea del posto fisso non esiste”. La meritocrazia ha le sue responsabilità: “Se lavori al di sotto di un certo standard ti mettono da parte, devi essere stacanovista e vivere il tuo impiego come una passione”, sottolinea.
Ma a differenza dell’Italia, qui un giovane può arrivare ovunque: “Non esistono barriere gerarchiche, che tu abbia 25 o 50 anni dipende tutto da te”, spiega. Una condizione che porta con sé parecchi rischi: “All’inizio è come prendere un bambino e metterlo in un laboratorio – racconta -. Devi fare tutto da solo. Per questo il rischio di fallire è molto alto”.
Ma in tutti questi anni Pasquale si è sempre rimboccato le maniche, portando a casa risultati importanti. Su tutti, la ricerca pubblicata su Nature Communication (qui), di cui è l’ideatore e il primo firmatario. “L’idea generale era nata negli anni di Bologna, ma lo sviluppo e l’ipotesi specifica si sono sviluppati a New York, dove ho avuto accesso diretto al mondo dell’oncologia clinica”, racconta Pasquale. Le differenze con l’Italia sono emerse con tutte le loro forze: “Negli Stati Uniti l’oncologo è anche un ricercatore e questo permette di affrontare problemi clinici importanti – sottolinea -, da noi questo non è possibile, perché la ricerca non è remunerativa, per cui chi si occupa dell’aspetto clinico è totalmente disinteressato a portarla avanti”. Dopo anni di lavoro, è venuto fuori uno studio molto interessante: “Focalizzandoci sulla tipologia più diffusa di tumore alla mammella nella donna, abbiamo analizzato la possibilità che alcune cellule tumorali possono diventare dei driver della malattia”, spiega.
Per prima cosa è stato necessario dividere il percorso in due parti: “Prima c’è l’aspetto chirurgico, ovvero la rimozione della massa, poi la terapia”, racconta. Da qui lo spunto per la scoperta: “Le cure che vengono fatte si basano sempre su nozioni recuperate dal tumore primitivo, ma in realtà la terapia viene fatta sul tumore metastatico, che non è più lo stesso”. Un passo in avanti importante per capire come si evolvono i vari protagonisti della malattia e per pensare a nuove vie terapeutiche.
Pasquale è molto felice del lavoro fatto, ma ha un piccolo rimpianto: “È brutto essere costretti ad andarsene per costruire qualcosa che vorresti fare in Italia”, spiega. In questi anni ha spesso sentito nostalgia di alcuni aspetti del nostro Paese: “Quando vai via impari davvero ad apprezzare la tua terra, anche se è così incasinata e inconcludente”, ammette. E il suo pensiero non può che andare ai giovanissimi: “L’Italia li sta rovinando. Io ai ragazzi consiglio di partire, almeno per qualche anno, per poter riaccendere quella miccia di curiosità e di volontà che oggi non vedo più”, sottolinea. D’altronde, tutte le rivoluzioni cominciano con un piccolo passo: “Bisogna sempre combattere per quello in cui si crede, senza aver paura di perdere – ammette -, anche perché non c’è più niente da perdere”.