C’è aria di tempesta tra i democratici. Le dimissioni annunciate di Debbie Wasserman Schultz, presidente del Democratic National Committee, sono soltanto la punta dell’iceberg di un disagio che cova in alcuni gruppi del mondo progressista e che potrebbe emergere proprio alla Convention di Philadelphia, che parte il 25 luglio. La Schultz lascia dopo la diffusione da parte di WikiLeaks di 19mila email, sue e dei suoi collaboratori, che mostrano come il partito abbia avversato la candidatura di Bernie Sanders. In una email la Schultz definisce Jeff Weaver, il campaign manager di Sanders, un “dannato bugiardo”; in un’altra, uno “stronzo”. Nella mail di un funzionario democratico si pensa di far passare il messaggio che Sanders sia “ateo”, per scatenare contro di lui “i battisti del Sud”. In un’altra ancora, i dirigenti democratici progettano di nuocere a Sanders diffondendo la voce che la sua campagna sia in grave difficoltà.
Non è una novità che il Partito democratico abbia, nei mesi delle primarie, fatto largamente il tifo per Hillary Clinton. “Non sono per nulla sorpreso”, è stato il commento di Sanders quando la notizia delle email si è diffusa. Ora la dirigenza democratica accusa la Russia di Putin di avere hackerato le mail per destabilizzare la campagna di Clinton e favorire Donald Trump. Ma le mail ci sono, sono autentiche e non danno un quadro edificante della battaglia interna al partito. La Schultz, una deputata di Miami da tempo invisa a molti dei suoi stessi colleghi democratici per toni da “zarina” e modi autoritari (in una mail chiede anche che i funzionari del partito si occupino di trovarle sette biglietti per il musical “Hamilton”), ha quindi dovuto lasciare l’incarico.
Difficile che le sue dimissioni risolvano il caso. Perché, appunto, il caso non riguarda alcune email di cattivo gusto. Il caso riguarda la battaglia che si è aperta nel Partito democratico con le primarie e che si è solo superficialmente chiusa. Bernie Sanders ha annunciato il suo appoggio a Clinton. Lo ha annunciato in modo netto, convinto, dichiarando di voler fare “tutto ciò che è in suo potere” per far vincere la democratica e sconfiggere Donald Trump, “il candidato repubblicano più pericoloso da quando sono in politica”. Ma se Sanders ha perso e accettato le regole del partito, molti dei suoi sostenitori non sembrano così certi di appoggiare Clinton. “Dipenderà da cosa Clinton dirà. Da come il partito accoglierà le nostre richieste e proposte”, dice Erin, una ragazza che lavora in un ospedale di Philadelphia e che ha fatto campagna nei mesi scorsi per il senatore del Vermont.
Una prima ragione di scontro tra i due campi – il Partito democratico e i sandersiani – riguarda anzitutto le regole. I sostenitori del senatore vogliono che, alle prossime primarie, siano ammessi a votare tutti quelli che lo desiderano, e non solo i democratici “registrati”. Primarie e caucus “aperti” significherebbero possibilità di voto per indipendenti e repubblicani; quindi, un modo per strappare al partito il controllo del processo di selezione dei candidati. Anche l’altra proposta dei sandersiani va in questo senso. Sanders e i suoi vogliono abolire i superdelegati o, nel caso non fosse possibile arrivare a una misura così estrema, vorrebbero costringere i superdelegati a votare sulla base dell’esito del voto popolare. Come si vede, dietro questioni apparentemente procedurali, si nascondono questioni di sostanza politica. Superdelegati e primarie aperte ai soli democratici sono stati ciò che hanno impedito a Sanders di risultare davvero competitivo.
Si capisce dunque perché Barney Frank, presidente del “Rules Committee” – e uno dei grandi nemici di Sanders – sia così poco entusiasta ai cambiamenti. Cambiare le regole, nel senso voluto da Sanders, significa indebolire il Partito democratico. Meglio, indebolire la sua dirigenza. C’è poi il tema dei programmi. In queste settimane, dietro le quinte della Convention, si è svolta una battaglia senza esclusione di colpi sulla piattaforma del partito che verrà approvata a Philadelphia. I sandersiani sono riusciti a mettere a segno alcuni punti importanti: i minimi salariali federali a 15 dollari all’ora; il carbon pricing, l’obbligo di pagare una tariffa sulla base delle emissioni di CO2; un programma di aiuti agli studenti che si iscrivono all’università. Clinton e i suoi sono però riusciti a tenere il punto su altre questioni: non ci sarà un linguaggio particolarmente duro nei confronti della Trans-Pacific-Partnership (Tpp), l’accordo commerciale con i Paesi del Pacifico; le posizioni in politica estera restano quelle tradizionali, vicine dunque ai toni “da falco” di Clinton; e la piattaforma del partito non abbraccia quello spirito di radicale messa in discussione delle oligarchie finanziarie e anti-democratiche che è stato uno dei temi della campagna di Sanders.
Il senatore del Vermont parlerà la sera del 25 luglio, nella prima giornata della Convention. A Sanders tocca quindi aprirla, a Hillary Clinton chiuderla, giovedì. Il discorso nel giorno dell’inaugurazione fa sicuramente piacere al senatore; è un riconoscimento importante, un segnale di rispetto. Ma non basta. Sanders è leader esperto, che guarda ai valori e alle idee ma sa benissimo che poi questi vanno pragmaticamente realizzati. Il riconoscimento formale, quindi, non è sufficiente. Quello che Sanders vuole ottenere da questa Convention è una garanzia che il movimento che lui ha guidato non venga disperso, ma che effettivamente conti nel futuro del partito democratico e del progressismo americano. E che alcune delle sue proposte trovino uno sbocco concreto.
La palla, a questo punto, torna a Hillary Clinton e al partito. Quanto saranno disposti a concedere? Quanto vorranno offrire all’uomo che in questi mesi ha rivitalizzato la politica progressista? Dalla risposta a queste domande dipende l’esito della Convention di Philadelphia. Da questo dipende se la tempesta esploderà, o se i democratici uniti cercheranno di portare la prima donna alla Casa Bianca.