I fatti: sabato 16 luglio un uomo uccide la moglie in provincia di Varese. Il giornale locale La Provincia pubblica nei giorni successivi due articoli (primo/secondo) nei quali si giustifica il femminicidio: la donna da anni criticava il marito, aveva un carattere irruento, gli rovinava la vita, l’ultima lite è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Dopo l’appello scritto da me e da Nadia Somma, pubblicato dal sito della rete Giulia, ecco le righe della direttora del giornale. Il succo dell’editoriale è così riassumibile: non è successo nulla, abbiamo fatto il nostro lavoro, il femminicidio è una brutta cosa, siamo contro le offese alle donne.
Se non fosse che di mezzo c’è una donna uccisa il materiale prodotto da La Provincia sarebbe una splendida occasione per chi fa formazione sulla responsabilità nella professione giornalistica: un dossier pronto sul come non si deve scrivere.
Il perché, invece di spiegarlo io, lo lascio dire a un uomo, attivista e formatore sulla violenza di genere, il cui articolo ‘Trasformare ogni uomo in un femminista‘ pubblichiamo tradotto nel prossimo numero di Marea. Kats spiega così il fenomeno dalla sparizione della responsabilità maschile quando si tratta di violenza di genere, un male che avvelena il nostro modo di pensare, educare, scrivere comunicare.
“Voglio condividere un esercizio che illustra come il modo in cui usiamo il linguaggio lavora per mantenere gli uomini fuori dalla nostra attenzione. Questo gioco è il frutto del lavoro della linguista femminista Julia Penelope. Si inizia con una frase molto semplice: ”Giovanni ha picchiato Maria”. Giovanni è il soggetto. Ha picchiato è il verbo. Maria è l’oggetto. Chiaro. Ora passiamo alla seconda frase, che dice la stessa cosa in forma passiva: “Maria è stata picchiata da Giovanni”. Qualcosa è accaduto in una sola frase. Abbiamo spostato la nostra attenzione da Giovanni a Maria, e Giovanni è molto vicino alla fine della frase, tanto vicino da cadere fuori dalla nostra mappa psichica. Nella terza frase Giovanni è ormai assente: “Maria è stata picchiata”, e ora tutto riguarda Maria. Non stiamo nemmeno a pensare a Giovanni. E’ totalmente incentrato su Maria. Negli ultimi anni abbiamo usato come sinonimo di ‘picchiare’ il termine ‘maltrattare’, così la frase è diventata ‘Maria è stata maltrattata’. In questa sequenza la frase finale diventa: “Maria è una donna maltrattata”. Così ora è la stessa identità di Maria (Maria è una donna maltrattata) ciò è stato fatto da Giovanni in prima istanza. Ma abbiamo dimostrato che Giovanni ha da tempo lasciato la narrazione.
Coloro che lavorano nel campo della violenza domestica e sessuale sanno che biasimare la vittima è una modalità pervasiva: vale a dire che si incolpa la persona a cui è stato fatto qualcosa più che la persona che lo ha fatto. Sentiamo: ”Perché le donne escono con questi uomini? Perché ne sono attratte? Perché continuano a tornare? Che cosa stava indossando a quella festa? Perché stava bevendo con quel gruppo di ragazzi in quella stanza d’albergo? Si colpevolizza la vittima, e ci sono molte ragioni per questo: una di queste è che la nostra struttura cognitiva è impostata in modo da dare la colpa alle vittime. Avviene in modo inconscio. La nostra struttura cognitiva è impostata per porre domande sulle donne e sulle loro scelte e quello che stanno facendo, pensando, e indossando”.
Ecco, mi sembra che siano questioni non più rimandabili da porre all’attenzione delle redazioni. Perché essere ammazzate due volte, una da un uomo e l’altra dai giornali, non può succedere in un paese civile.