E ora, dopo le prime pagine dei giornali che dicono degli allarmi delle polizie di tutta Europa ormai nel caos, compare la foto dell’attentatore di Monaco. Ed è inquietante. Di Ali Sonboly è scandalosa l’età e una fisicità esile, insopportabile la normalità del suo volto, la fragilità dello sguardo obliquo, contrastante con l’immancabile immagine di forza ed efficienza degli agenti delle squadre d’assalto intervenute, come sempre e come naturale troppo tardi a frenare l’imprevedibile follia omicida.

Dal Bataclan a Monaco passando per Nizza e Wurzburg sempre più si ha l’impressione di un passaggio: dalla violenza ideologica collettiva, militarizzata e organizzata che abbiamo visto a Parigi e Orlando, dalla guerra ispirata dal Dio folle che semina odio e incita alla morte degli infedeli, ad azioni individuali in cui una qualche forma di follia prende il sopravvento.

In particolare l’immagine di quel camion bianco che a Nizza si avventa sulla folla inerme, incapace di fuggire, ricorda qualcosa di un incubo infantile, un “sogno tipico” che trova spazio anche in Freud. C’è qualcosa di personale e di profondo nel terrore onirico di chi cerca di fuggire ma rimane rallentato, prigioniero della sua stessa lentezza mentre viene travolto dalla rapidità del pericolo in arrivo.

Sono giorni d’estate, di caldo e di sospensione delle attività ordinarie; un periodo dell’anno in cui si moltiplicano i ricoveri nei reparti di psichiatria, che lascia gli incubi dei più fragili liberi di trovare spazio e tempo per dilagare nella mente alla ricerca di diventare azioni. Le forme di azione nel reale rendono tangibili le più nascoste tra le fantasie di vendetta per una felicità da cui ci si ritiene esclusi, di autoaffermazione, superando la barriera più potente che si situa tra la fantasia di morte e la sua realizzazione.

Rimane una differenza, da questo punto di vista, tra l’attentatore di Nizza e quel tale, suo amico, che “sapeva” poche ore prima della strage, gli scriveva sms incitandolo e consigliandolo di “tagliare i freni” del camion, e che oggi rischia un’imputazione per complicità in strage e che ha in effetti condiviso una narrazione delirante ma restando al di qua della possibilità di agire la violenza sospendendo l’argine etico.

Una simile forma di follia individuale avrà come ingredienti il delirio depressivo, come accade negli omicidi-suicidi e un potentissimo, dolente, desiderio di rivalsa narcisistica. Già alcuni suicidi scelgono una dimensione collettiva gettandosi sotto i treni all’ora di punta per obbligare centinaia di passeggeri a prendere atto dell’esistenza della vittima e decine di poliziotti al recupero del corpo straziato. Dinamica estremizzata nel caso del disastro del pilota Germanwings che si suicidò con un aereo civile carico di passeggeri; anche a Monaco, come a Nizza l’incubo è divenuto realtà prendendo la forma di un grido, un’affermazione narcisistica estrema, in cui in un gesto finale il folle crea una dimensione di onnipotenza illusoria ben lontana da una crociata ideologica, anch’essa terribile ma del tutto differente.

La follia omicida nasce da anni di frustrazioni, serve a soddisfare un odio sordo coltivato nel buio e nutrito dal tempo, la sensazione di un futuro impossibile da vivere che ha generato una fantasia che si fa via via più concreta. L’illusione che si coltiva in questi casi è di farsi demone onnipotente capace di dare la morte o di lasciare in vita, in un gesto che si fa catarsi fino a rendere perfino tollerabile l’epilogo inevitabile, la propria morte. L’essenziale è infatti sfuggire all’insufficienza della propria vita ritrovando una sorta di ferale dignità nella dimensione collettiva dell’incubo e dell’eredità di paura che rimarrà ben oltre la propria fine.

Tuttavia Nizza e soprattutto Wurzburg e Monaco hanno anche una seconda caratteristica: sono atti di giovanissimi, quasi adolescenti. Qui si sente, anche se da lontano, il canto delle sirene che promettono un’identità forte, quelle stesse sirene che in una fascinazione dell’orrore consentono all’Is di reclutare giovani anche occidentali alla disperata ricerca di un’identità.

Ma va detta una cosa, per non rischiare di fare dell’inutile retorica. Diciotto anni di lavoro per il Tribunale penale per i minorenni di Brescia mi hanno insegnato che una disperazione così grande e un funzionamento così malato non si vede solo se non si vuole vedere. Se la responsabilità sociale collettiva, ci dice ancora Recalcati, consiste nel mancare nell’offerta di un’identità collettiva forte europea alternativa alle ideologie di morte, tuttavia esiste una responsabilità più acuta e più ristretta, di alcuni, dei pochi che conoscevano Ali e popolano il suo mondo sociale, come quello dei tanti adolescenti in crisi.

Quei genitori, professori, educatori, amici che per pigrizia, per ignoranza, per quieto vivere, perché hanno ritenuto che non fosse compito loro, per disperazione, per paura e per mille altre ragioni più o meno accettabili hanno fatto un milione di volte finta di non vedere. Finta di niente.

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