di Mario Daniele Amore, Guido Corbetta e Alessandro Minichilli (Fonte: lavoce.info)
Visioni contrapposte sul passaggio generazionale
Il tema dei benefici fiscali agli eredi degli imprenditori, esentati dal pagare le imposte di successione purché si impegnino a proseguire l’attività di impresa, è da tempo oggetto di dibattito tra due visioni contrapposte. Da un lato, c’è chi ritiene (incluso il nostro legislatore) che favorire il passaggio generazionale in ambito familiare sia un valore, basandosi sull’idea che la scissione tra proprietà e gestione sia un lusso che le piccole imprese non possono permettersi. D’altro canto, c’è chi osserva come prevedere uno sconto su un’imposta per una categoria di soggetti equivalga a offrire loro un sussidio. Sono di questo avviso ad esempio Massimo Bordignon ed Andrea Prat, i quali supportano la tesi per cui, in assenza di una chiara giustificazione economica, l’esenzione d’imposta per le successioni verso gli eredi familiari rappresenti un utilizzo improprio di risorse altrimenti impiegabili per una riduzione generalizzata della tassazione sulle imprese. A questo proposito, gli autori forniscono alcune evidenze a livello internazionale sui risultati peggiori ottenuti da aziende familiari gestite da eredi.
Per quanto entrambe le tesi presentino elementi di ragionevolezza, riteniamo che vi siano sufficienti motivi per suggerire un approccio intermedio, che riconosca in pieno la diversità di situazioni concrete. È del tutto vero che le aziende familiari possono essere vittime di scelte economicamente inefficienti derivanti dal desiderio di mantenere il controllo e la gestione all’interno della famiglia; e se questa non dispone del capitale umano necessario, il business ne soffrirà. È anche vero che la costante ricerca da parte delle famiglie proprietarie di un giusto equilibrio tra benefici non monetari ed efficienza nella gestione non trovi sempre soluzioni adeguate. Ma è altrettanto vero che le aziende familiari non sono necessariamente destinate a soccombere di nepotismo. Al contrario, ricerche recenti suggeriscono che quando le famiglie selezionano i manager familiari sulla base di principi meritocratici, la gestione familiare può portare a ottimi risultati.
Analizzando la successione dell’amministratore delegato nelle aziende quotate americane, Francisco Perez-Gonzalez osserva come i cattivi risultati finanziari dei manager familiari post-successione siano interamente attribuibili ai casi in cui questi siano sprovvisti di titoli universitari prestigiosi; al contrario, i manager familiari con titoli prestigiosi conseguono risultati nella media. Anche la pressione competitiva ha un ruolo importante nell’indirizzare la corretta selezione dei successori. Uno studio giapponese suggerisce infatti che la minaccia rappresentata dalla selezione di eredi familiari ma senza legami di sangue con la famiglia (ossia, adottati) crei forti incentivi alla selezione meritocratica e all’accumulazione di capitale umano da parte dei potenziali eredi consanguinei. Di conseguenza, le aziende gestite da manager familiari tenderanno ad avere risultati migliori rispetto a quelle guidate da manager esterni alla famiglia e persino delle aziende non familiari. Analizzando la popolazione delle aziende familiari italiane al di sopra dei 50 milioni di euro di fatturato, poi, Danny Miller, Alessandro Minichilli e Guido Corbetta evidenziano come i leader familiari siano più adatti in aziende di dimensioni minori e con proprietà concentrata nelle mani della famiglia. Al contrario, le aziende di dimensioni maggiori, e con proprietà articolata, mostrano risultati superiori quando il leader non è un familiare.
Incentivi fiscali a due velocità
Il vero obiettivo sembra dunque essere quello di fare in modo che nei processi di successione venga valorizzato il capitale umano – familiare o non – piuttosto che adottare strumenti fiscali volti a incoraggiare o scoraggiare tout-court la successione tra familiari. Per ottenere questo obiettivo, il legislatore dovrebbe incentivare una selezione meritocratica dei manager e una maggiore professionalizzazione della governance aziendale.
Tale esigenza potrebbe essere soddisfatta da incentivi fiscali a due velocità. Per le aziende di dimensioni minori, l’attuale regime di esenzione potrebbe favorire la continuità aziendale, evitando di imporre discontinuità a imprese con strutture organizzative e manageriali ancora fragili. Per le aziende più grandi, invece, il beneficio fiscale potrebbe essere indirizzato solo a quelle con una governance più strutturata, che abbiano un consiglio di amministrazione (ossia, non siano guidate da un amministratore unico) con almeno un membro esterno all’azienda e alla famiglia di controllo. Per disincentivare comportamenti opportunistici, poi, si potrebbe prevedere che queste strutture siano in essere da almeno tre anni prima del momento della successione proprietaria. Ciò potrebbe consentire il vero salto culturale di cui le nostre aziende familiari hanno bisogno, veicolando il beneficio fiscale verso obiettivi di qualità e professionalizzazione della governance, a prescindere dai legami di sangue di chi è chiamato a gestirle.