Spesso buttiamo un cellulare o uno smartphone solo perché non ci piace più, non è di ultimo modello, o si è leggermente ammaccato e cogliamo l’occasione per comprarne uno nuovo. Ma queste apparecchiature elettroniche sono altamente inquinanti e causano lo sfruttamento di milioni di lavoratori. Dovrebbero accompagnarci per molti molti anni, eppure nei paesi industrializzati, la vita media di un computer è calata da 6 anni nel 1997 a 2 nel 2005, mentre i telefoni cellulari hanno un ciclo di vita inferiore ai 2 anni.
Prendiamo ad esempio la produzione di un PC:
1) Materie prime. Alcune vanno estratte, come il litio, il cadmio o il coltan delle batterie. Il coltan, elemento fondamentale per la produzione di cellulari e videogiochi, è stata una delle cause delle guerre che hanno devastato il Congo. Il coltan contiene una parte di uranio, quindi è radioattivo, provoca tumori ma viene estratto dai minatori a mani nude.
2) Produzione dei componenti. I prodotti di scarto avvelenano aria e acqua delle zone dove ci sono le fabbriche, con poche eccezioni.
3) Assemblaggio. Qui il costo umano e sociale è altissimo. Tutti abbiamo sentito parlare dei suicidi alla Foxconn, fabbrica che produce gran parte dei prodotti elettronici del mondo.
4) Distribuzione e vendita. La filiera è piuttosto lunga, il che porta a un consumo eccessivo di CO2 per i trasporti, un aumento dei costi per l’acquirente finale e una compressione dei guadagni per i lavoratori più umili (la maggior parte).
5) Uso. Quando usiamo un computer consumiamo energia. Un potente desktop però può consumare anche 500 watt, mentre un portatile difficilmente ne assorbe più di 50 watt.
6) Smaltimento. I Raee sono la categoria di rifiuti urbani che rapportata al peso e volume contiene il maggior numero di sostanze inquinanti ed è tra quelle più difficili da smaltire. Ancora oggi si perdono le tracce del 75% dei rifiuti tecnologici prodotti nell’Unione europea. Si tratta di un “flusso nascosto” che in parte viene esportata – spesso illegalmente – per finire in discariche incontrollate in Africa oppure a riciclatori clandestini in Asia. In questi luoghi i lavoratori, spesso bambini, sono esposti ai rischi legati al cocktail di composti chimici che i rifiuti contengono e sprigionano quando trattati in modo rudimentale e senza protezioni.
Quindi, cosa fare? Riduciamo la quantità di oggetti elettronici in casa, puntando se possibile all’essenziale: quanti PC ci servono? Quanti cellulari? Possiamo fare a meno di un nuovo tablet e farci bastare il portatile che già abbiamo? Possiamo ridurre il numero di TV in casa o addirittura fare a meno della TV?
Quando acquistiamo un PC o smartphone, teniamo a mente la Greener electronic guide di Greenpeace, una classifica delle aziende elettroniche che ci dà una mano a scegliere le aziende “meno peggio” in fatto di ambiente. Preferiamo sempre oggetti elettronici facilmente riparabili, che rispondano ai principi dell’eco-design. I fornitori dei materiali utilizzati da Fairphone ad esempio hanno l’obbligo di assicurare ai lavoratori delle condizioni di lavoro dignitose.
Se i nostri gingilli elettronici si rompono, cerchiamo di farli aggiustare, non solo da chi ce li ha venduti, che ha tutto l’interesse a farcene comprare di nuovi, ma chiedendo anche a laboratori specializzati che trattano usato. Se non si possono proprio aggiustare, doniamo questi oggetti alle officine re-ware che potrebbero riutilizzare alcune componenti, mettendo insieme pezzi diversi, per il ripristino funzionale. E’ anche un modo per abbattere il divario digitale fra persone, settori sociali e Paesi, visto che poi molti di questi PC vengono mandati a progetti nel Sud del mondo. Indirizzi di laboratori e associazioni sul sito Greenme.it e sul libro ‘Tutto da rifare‘ di Pietro Luppi, (Terre di mezzo editore).
Invece di acquistare nuovi PC o cellulari, chiediamo a parenti o amici se ne hanno uno usato. In molte case ci sono cellulari inutilizzati ma funzionanti e i vostri amici saranno ben felici di vendervelo o addirittura
Il vero grande progresso non è una tecnologia ultra-efficiente, capace di fare meraviglie, il vero progresso siamo noi, consumatori che diventano consapevoli, quando riusciamo a spingere i produttori a proporre una via alternativa.