“Conosco Hillary Clinton da 25 anni. La ricordo come una grande First Lady che ha guidato la battaglia per la sanità pubblica e universale. Hillary Clinton sarà una straordinaria presidente e io sono orgoglioso di essere qui per lei stasera”. Sono le parole conclusive del discorso di Bernie Sanders alla Convention democratica di Filadelfia. Un discorso atteso con ansia, che nelle speranze dei democratici doveva almeno attutire lo scontro interno al partito. A giudicare dalla reazione della sala – mai a una recente Convention un politico ha suscitato un tale entusiasmo, con più di sei minuti di applausi di benvenuto – Sanders ha fatto quello che doveva fare: ha fatto pendere tutto il peso della sua personalità politica a favore di Hillary Clinton.
E’ stata la conclusione di trenta ore davvero “epiche” per i democratici riuniti a Filadelfia. C’è stato di tutto: la presidente del partito Debbie Wasserman Schultz che si è dovuta dimettere dopo la diffusione di migliaia di e-mail in cui lei e suoi collaboratori mostrano una predilezione faziosa per Clinton; un successivo caso di spionaggio internazionale, con la Russia accusata di aver hackerato il server dei democratici; la contestazione dei supporters di Bernie Sanders, che rifiutano di votare la Clinton a novembre; una serie di manifestazioni per le strade di Filadelfia, in cui migliaia di persone hanno urlato il loro rifiuto della candidata democratica; e infine la prima serata di Convention, con Michelel Obama, Elizabeth Warren e Bernie Sanders che sono venuti in aiuto di Clinton, sempre più traballante nei sondaggi.
Ha iniziato Michelle Obama, che è comparsa sul podio della Convention per raccontare soprattutto il carattere e la personalità di Hillary Clinton. Le due, Obama e Clinton, non sono mai state particolarmente vicine. L’ultima occasione di incontro ufficiale, a una cena, è stato nel 2013. Da allora, più nulla. Nel 2008, ai tempi della campagna elettorale, Michelle Obama non aveva del resto nascosto il suo fastidio per la rivale del marito, accusata di usare mezzi politici sleali. I vecchi attriti, ieri sera, sono sembrati del tutto superati. Michelel Obama ha detto di “fidarsi” di Hillary Clinton; e la fiducia è spesso quello che Clinton non riesce a trasmettere agli elettori; ha detto di rispettare il suo giudizio in politica estera, la passione che ha mostrato per le sorti delle donne, dei bambini, dei più deboli tra gli americani. La Obama ha finito con un accenno personale, che ha infiammato la sala. “Mi sveglio ogni mattina in una casa che è stata costruita d schiavi. Guardo le mie figlie, due giovani belle, intelligenti donne nere, giocare con il loro cane sul prato della Casa Bianca. E, grazie a Hilary Clinton, ora le mie figlie e tutti i nostri figli possono ritenere normale che una donna sia presidente degli Stati Uniti”.
Se a Michelle Obama è toccato illuminare l’aspetto più umano di Clinton, alla senatrice del Massachussetts Elizabeth Warren, leader dell’ala progressista, è invece toccato il compito di attaccare Donald Trump. Warren l’ha fatto, con una straordinaria precisione e ferocia. Trump è stato dipinto come un avventuriero, pronto ad approfittare della buona fede degli americani, capace solo di misurare e difendere il suo interesse personale. La Warren ha citato gli studenti manipolati e truffati della Trump University; le dichiarazioni di bancarotta di Trump, per salvare il suo patrimonio; la produzione delle sue aziende, trasferita all’estero. Ma devastante è stato soprattutto l’attacco che Warren ha portato contro le proposte politiche di Trump: “Trump pensa di poter conquistare voti soffiando sulle fiamme della paura e dell’odio. Scatenando il vicino contro il vicino… Questa è l’America di Donald Trump. Un’America di paura e di odio. Un’America dove tutto cade a pezzi. Dove i bianchi sono contro i neri e i latinos. I cristiani contro i musulmani e gli ebrei, gli etero contro i gay. Tutti contro gli immigrati”. A questa visione d’America, con la passione consueta nei discorsi di questa ex professoressa di Harvard, Warren ha detto no: “Donald Trump non sarà mai presidente degli Stati Uniti”.
La sala era già abbastanza surriscaldata quando è entrato in sala Bernie Sanders. E’ allora che è scoppiato un applauso infinito, ritmato da slogan, urla, canti. Ci sono voluti ben sei minuti prima che Sanders sia stato in grado di iniziare a parlare. Il suo discorso era particolarmente atteso. E dall’esito incerto. In giornata, infatti c’era stata la rivolta di una parte consistente dei suoi delegati, che a una colazione hanno contestato Sanders. Riuniti sul lato destro della sala, i delegati di Sanders per tutta la serata hanno continuato a rumoreggiare, interrompere i discorsi, urlare il loro disappunto nei confronti di Clinton. A un certo punto una degli speaker, Sarah Silverman, un’attrice che ha appoggiato Sanders durante le primarie ma che ora è intervenuta a Filadelfia per sostenere Clinton, si è rivolta ai contestatori e gli ha detto: “Siete ridicoli”.
Quando è salito Sanders sul podio, il timore era dunque quello che i suoi supporters scatenassero una nuova, clamorosa protesta. Non è stato così. Contestazioni, slogan anti Clinton sono continuati, ma senza davvero toccare il discorso di Sanders, che si è lanciato in un vero e proprio testamento politico. “La rivoluzione continua”, ha detto, riferendosi proprio al movimento che in questi mesi l’ha sostenuto. “Abbiamo cambiato la politica americana – ha continuato il senatore del Vermont -. Abbiamo dimostrato che la politica si può fare senza i soldi delle corporation e delle lobbies”. E’ venuto poi un meticoloso ripasso dei temi che il movimento di Sanders ha portato all’attenzione della politica americana: la sanità universale, i minimi salariali, le enormi differenze di reddito tra le due Americhe, la questione del riscaldamento globale, del college per i giovani. “Questa elezione non è mai stata una questione mia, di Clinton, di Donald Trump. Questa elezione ha sempre riguardato il destino del 99 per cento degli americani che non riesce a vivere come dovrebbe in una grande nazione come l’America”.
Poi è arrivato l’appoggio a Clinton, che non poteva essere più caldo e appassionato: “Fratelli e sorelle, se voi non credete che queste elezioni siano importanti, se pensate che potete stare di lato, a guardare, prendete solo un momento del vostro tempo e pensate a quali giudici della Corte Suprema Donald Trump nominerebbe e che cosa accadrebbe alle libertà civili, all’eguaglianza dei diritti e al futuro del nostro Paese”. Ancora qualche frase, prima del finale, in cui il senatore si è detto appunto “onorato” di stare dalla parte della Clinton. A questo punto, oltre l’applauso potente della sala, c’è stata qualche contestazione in arrivo dal settore dei delegati di Sanders. Ma non quanto si temeva, né una protesta davvero capace di mettere in imbarazzo la dirigenza del partito.
Resta ora da capire se l’appello di Sanders ai suoi verrà accolto. Da una prima, empirica, indagine è risultato che molti dei delegati del senatore sono sulle barricate. “Non mi fido di lei. Temo che vada alla Casa Bianca e non tenga nessuna delle promesse che sta facendo”, ci ha detto Cindy Fandarys, una delegata dell’Ohio. “Non la voto. Non la posso votare, nemmeno se me lo dice Bernie”, ha spiegato un giovanissimo delegato dell’Iowa, Zack Legers. Per Geena Parody, che viene dall’Indiana, “Bernie ha fatto bene a esprimere il suo appoggio a Clinton. Sono le regole del gioco, ha partecipato alle primarie, ha perso e ora deve appoggiare la vincitrice. Ma noi, non abbiamo firmato nessun impegno”.
In attesa della prova dei fatti, quello che resta della prima serata della convention democratica è dunque soprattutto una sorta di testamento politico e personale, quello del senatore Sanders, che ha portato a Fialdelfia quello che sinora è in buona parte mancato alla campagna democratica: la forza della passione, la capacità di dare alla politica il senso di un’avventura esistenziale.