“I pescatori dicono che forse stanotte farà Marrobbio…” mi racconta il signore del bar nella piazzetta a metà strada fra la Chiesa di San Gerlando e il mare. E mentre mi domando cosa diavolo sia il Marrobbio, la finta indifferenza appena indossata mi tradisce, così lui prosegue: “… è un fenomeno atmosferico strano, è come se all’improvviso si alzasse la marea, roba di un metro/un metro e mezzo… come una burrasca, e le barche cominciano a sbattere contro i moli, o una contro l’altra. Non è una tromba d’aria eh… Succede quasi sempre di notte. Non piove nemmeno. E’ una questione di correnti sottomarine, l’unica altra cosa è il vento, c’è quasi sempre vento. Fa impressione se non sei abituato. Mi pare che capiti soltanto qua, a Lampedusa, e… e forse da un’altra parte…”

Esco dal bar che ne so più e ne so meno di prima, ma in effetti l’aria è strana, da almeno un’ora.

Cammino lentamente lungo Via Roma in direzione del mare. In questo ventoso spillo di terra conficcato nel punto forse più blu e sicuramente più a Sud d’Europa, mare significa, fuor di retorica, bellezza e tragedia, come fossero un’unica questione, un unico macramè da sbrogliare, affrontare, guardare in faccia. Qua, come in tanti altri luoghi del Mediterraneo oramai, la parola VIAGGIO si veste e sveste di estremo, di infinito, di epico, di contrasto. Giungo alla terrazza che dà sul porto vecchio, a destra lo sguardo tocca il lungomare e quel che rimane del cimitero delle barche dei migranti, di fianco al campo di calcio recintato, a sinistra invece, il Molo Favaloro, una piccola scalinata che porta fino a qua, e l’ingresso del notevole Portom, l’esposizione degli oggetti dei migranti, un museo – purtroppo – work in progress che raccoglie anni e oggetti perduti o morti assieme ai loro proprietari.

Non sono ancora le sei, c’è una strana bruma che sa di malumore e attesa. Guardo le barche all’ormeggio, memore delle parole del barista, scodinzolano ma sono abbastanza tranquille, al momento. E’ buio però, il cielo è filtrato come da un velo di sabbia, lo sguardo non lo raggiunge.

lampedusa-dennanni

Ci sono due uomini alla mia sinistra, entrambi soli, come me appoggiati coi gomiti alla balaustra. Indossano delle tute, sono migranti, durante il giorno li fanno uscire per qualche ora dal centro di accoglienza. Ne ho incontrati molti, da quando sono qui. Incrociano il mio sguardo lungo le strade e fanno un cenno di saluto, alcuni sorridono, ma è difficile riuscire a instaurare un dialogo, se pur minimo, i motivi sono molti, e molto delicati, oltre a quello evidente della lingua.

Ma stasera accade il contrario.

Dopo qualche minuto di silenzio fra i mulinelli di vento, l’uomo più prossimo a me si avvicina e mi chiede se ho una penna, me la indica coi gesti. Gliene passo una. Si appunta qualcosa su di un foglietto, qualcosa che copia da un cellulare. Guardo le barche, sotto. Guardo il profilo del sole all’orizzonte, ovattato, come dietro a un lenzuolo steso. Passa mezzo minuto e me la restituisce, con un piccolo sorriso e un “thank you”. Non è facile che conoscano l’inglese, e non è detto che sia così, in effetti. Gli chiedo da dove arriva, e mi risponde dall’Eritrea. Non tanto, ma lo parla, e lo intende. Gli chiedo il suo nome. Si chiama Yelam. Avrà non più di 35 anni. Sarebbe la mia domanda seguente, ma inaspettatamente è lui a proseguire. Mi parla di Salimah… E mi parla di un viaggio, un viaggio lunghissimo, stremante, che non è ancora finito. Ripete la parola viaggio e il nome Salimah come fossero l’inizio e la fine di tutta la vita. E’ come li volesse piantare nella terra, o li segnasse su di una mappa. Ed è quello il significato che gli sta dando, mi accorgo. Cerco di capire qualcosa di più, chi è Salimah?

Hanno viaggiato insieme, dall’Eritrea alla Libia. Vogliono andare in Svezia, la loro meta. Lo dice al presente. Dice altre cose al passato, ma quando parla di questo viaggio e di Salimah usa sempre il presente. Ma in Libia sono stati fatti salire su due imbarcazioni diverse, probabilmente in momenti diversi. E da lì, si sono persi.

82

Salimah non è sua moglie, se capisco bene. Quello che capisco perfettamente invece, è che per lui è tutto. E anche che non sa più dove sia.

Poi indica il cellulare che ha ancora in mano per dire che ha saputo non so da chi che è stata da qualche parte a raccogliere pomodori. E che è scappata. Perché è morta una persona. O delle persone. E ha paura, Salimah. E anche lui, Yelam, ora ha paura. Non comprendo bene una cosa, a un certo punto. Mi fa intendere che Salimah era già arrivata al confine con la Francia, dice il nome “Venctimidia… Venctimidia…”, e che poi dev’essere tornata indietro, per lavorare, a raccogliere pomodori. E qui mi guarda mezzo secondo in faccia, Yelam, mentre mi dice un’altra cosa, che è una cosa sul viaggio, e sulla vita, una cosa terribile e potente, mi dice che non si deve mai tornare indietro, quando vuoi andare in un posto. Il viaggio dall’Eritrea alla Libia è durato più di un anno, fra violenza fame carceri malattie. Ma, dice, non sono mai tornati indietro. Non si torna indietro, se si vuole andare da qualche parte.

L’aria è sempre più torva, e il vento la scuote nervosamente.

Dopo la fuga dai campi di pomodori, non ne ha più saputo nulla, di Salimah, e guarda nuovamente il cellulare. Gli chiedo da quanto è qui. Mi dice che non sa più, parla di settimane, e Yelam vuole andarsene, vuole ripartire… Negli hotspot, come quello di Lampedusa, ricordo io, da settembre 2015, secondo le norme comunitarie (decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142) bisognerebbe far transitare i migranti nel giro di poche ore. Ma la realtà è molto più complessa e drammatica. E Yelam ne è un esempio, suo malgrado.

Gli chiedo cosa pensa di fare, per se stesso e per Salimah, ammesso che questa frase abbia un senso, nella sua condizione. Non mi ha più guardato dritto in faccia, dopo quel mezzo secondo di prima. Non so neppure se abbia capito realmente. Dice che il viaggio deve continuare. Insieme a Salimah. Fino alla Svezia.

Azzardo: e senza Salimah?

Non ha bisogno di tempo per pensare a come rispondermi, e dice quattro frasi: il viaggio non è finito, il viaggio deve continuare, il viaggio è lungo, il viaggio è Salimah.

P.S.: per motivi di sicurezza, i nomi Yelam e Salimah non sono i nomi reali dei due protagonisti della vicenda, ma nomi di fantasia.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Lesbo, tra storia, oriente e foreste millenarie

next
Articolo Successivo

Calabria nascosta, un viaggio tra il bergamotto e gli ultracentenari/Parte I

next