Vi è mai capitato di andare a un appuntamento importante, di lavoro? Non un colloquio per essere assunti, ma per conoscere la vostra nuova sede di destinazione per i prossimi tre anni. Avete cura di arrivare con un buon quarto d’ora in anticipo, per essere sicuri di non fare brutte figure. Avete messo il vestito buono. Se siete uomini in ovvia giacca e cravatta, cui aggiustate il nodo ogni tot secondi. Suonate al citofono dello studio presso cui dovete sostenere il vostro colloquio da cui dipenderà una parte del vostro futuro: se vi confermano nella vostra città, magari potrete accendere quel mutuo. Se vi mandano lontano ma non troppo, forse potrete cambiare l’automobile. Si tratta di una missione lunga, tre anni: di questi tempi un lusso.

Salite in anticamera, vi accoglie una segretaria, è gentile, vi fa accomodare sulle poltroncine di una sala d’attesa dai colori pastello che a voi paiono psichedelici, tanto siete adrenalinici e pronti allo sprint mentale. Ripassate come presentarvi, dove portare il discorso, quanto parlare e come evitare silenzi o verbosità. Mancano ormai tre minuti. Due. Uno. Tac, è l’ora dell’appuntamento. E non succede niente.

Guardate verso la segretaria, ma vi rendete conto che se n’è andata pure lei dalla sua postazione. Non ci avete nemmeno fatto caso: prima c’era e ora non c’è più. Non ha detto nulla, né lasciato uno squallido cartellino di plastica modello “torno subito“. Guardate le lancette dell’orologio in mezzo alla sala d’attesa: un minuto dopo l’orario del colloquio. Poi due, cinque, dieci, venti minuti. Tutto tace, anche il vostro cellulare. Non una mail ricevuta, niente di niente. Intorno a voi uno strano silenzio. Siete soli, in una sala d’attesa vuota e muta, in un piano deserto, in un palazzo di venti piani, soli. Passa mezzora e poi un’ora: capite che deve essere successo qualcosa di incredibile, e vi decidete a tornarvene a casa. Mesti. Con un sapore di ferro in bocca. Le occhiaie, la cravatta ormai sbrillentata.

Chiaro che una situazione del genere può essere solo il frutto di un raccontino di narrativa. Quale datore di lavoro al mondo si comporterebbe in questo modo, dinanzi a un candidato da assumere? Nessuno. E invece, in Italia un datore di lavoro così c’è. È addirittura un ministero, quello dell’Istruzione, nel nostro caso. Proprio ieri infatti ha “dato buca” a circa 30.000 docenti della scuola dell’infanzia e primaria che aspettavano ansiosi di ricevere la comunicazione ufficiale circa la loro nuova sede di lavoro per i prossimi 3 anni.

Non si trovavano in un’anticamera fisica, ma in una virtuale sì. La comunicazione infatti sarebbe dovuta arrivare nella giornata di ieri tramite lo schermo del loro computer. Comunicazione ufficiale e in pompa magna, da far gocciolare giù dal portale del ministero, Istanze On Line, affidabile come tutti i portali istituzionali del mondo. Uno crede, almeno.

Dopo due rinvii, ieri doveva essere il giorno in cui la carica dei trentamila doveva scoprire la propria destinazione finale, l’ambito o la sede in cui lavorare dal prossimo settembre, dopo aver firmato nel 2015 il tanto agognato contratto a tempo indeterminato. C’erano tutte le premesse per fare le cose per bene: fin da aprile scorso si sapeva che le domande sarebbero state decine di migliaia, c’era quindi il tempo per adeguare gli strumenti alle oggettive necessità: un algoritmo già sperimentato assegna a ciascun docente un ambito in Italia, in base al punteggio e in base alle preferenze espresse.

I docenti assunti in aprile hanno dunque fatto domanda inserendo, a norma di legge, tutti gli ambiti e le province d’Italia, alla ricerca di una sede definitiva. Domanda presentata entro i termini dei primi di giugno. Il 18 luglio, un mese e mezzo dopo, si saprà l’esito. No, contrordine. Il Miur fa sapere di un primo rinvio al 23 luglio. Oh beh. Pochi giorni in più, che vuoi che sia.

Poi no, secondo rinvio: il 26 luglio. Comincia a essere preoccupante la cosa: più il Miur ritarda l’assegnazione dei docenti di questo grado di scuole, e più, a cascata, dovrà ritardare l’assegnazione degli insegnanti di tutti gli altri successivi gradi. Più di centomila professori aspettano di sapere dove dovranno essere spediti per i prossimi 3 anni, e quelli di licei e tecnici già bestemmiano perché per loro la data dovrebbe essere addirittura il 26 agosto, a nemmeno una settimana dall’inizio dell’anno scolastico.

Ok. Ieri era il 26 luglio. E non è successo niente. Nessuna mail, nessun messaggio. Il portale tace, a volte in tilt per il troppo traffico. Non arrivano gli esiti della mobilità, ma soprattutto non arriva uno straccio di comunicato del Miur che spieghi il perché di questo ennesimo disservizio. E nemmeno i sindacati si muovono in via ufficiale. Tacciono anche loro. Nessuno di chi deve e può si è preso la responsabilità di spiegare.

È ormai il 27 luglio e trentamila maestre e maestri sono senza sede, senza futuro e senza stipendio (quest’ultima è un’altra storia, ma ve la racconteremo). Anche la segretaria virtuale del Miur è sgattaiolata via. Vedi un biglietto immaginario, dice: ritenta domani, sarai (forse) più fortunato.

Alle 11.35 del 27 luglio, quando questo pezzo va in pagina, l’unico provveditorato che ha cominciato a comunicare gli esiti della mobilità è quello di Cuneo.

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