Avendo politica e informazione decretato che ‘siamo in guerra’ alcuni giornalisti cominciano inevitabilmente a chiedersi se non sia necessario adottare alcune tra le condotte che sono tipiche di un Paese in guerra: in primo luogo la censura. In questo caso un’auto-censura: Le Monde sceglie di non pubblicare le foto dei terroristi che uccidono per evitare di contribuire alla loro glorificazione postuma. Una rete televisiva, Bfm-TV, imita Le Monde; un’altra, Europe1, ‘anonimizza’ gli assassini privandoli non solo della foto ma anche del nome: i telespettatori ne conosceranno solo le iniziali (però Europe1 non tacerà la loro storia personale, crimini pregressi, educazione, famiglia, il loro rapporto con la religione, etc). Per quanto mosse dalle migliori intenzioni queste iniziative faticano a superare un’obiezione decisiva: sono inutili. Chi è disponibile a glorificare autori di stragi e omicidi, chi è sensibile agli incitamenti dell’Isis, certo non legge Le Monde né si fida delle tv europee: semmai si abbevera ai siti dell’islamismo guerriero, alla cosiddetta ‘jihadisfera’, dove ciascun forsennato può trovare la sua ispirazione tra i ritratti di decine di martiri, tutti opportunamente celebrati come eroi e sant’uomini. Dunque semmai bisognerebbe radere al suolo la jihadisfera, soluzione tecnicamente molto complicata e forse irrealizzabile (senza qui voler neppure sfiorare i problemi etici e politici che suscita ogni intervento di questo tipo).

Dunque la proposta di Le Monde sembra soprattutto un modo per uscire dal paradosso ormai evidente anche in Italia, dove molta politica e molto giornalismo gridano che ‘siamo in guerra’ e poi partono per le vacanze al mare, mica per il fronte. Del resto, cos’altro fare per dimostrare a noi stessi che siamo in guerra? Richiamare i riservisti, reintrodurre la leva obbligatoria? Ci sarebbe una sollevazione. Ordinare all’industria di trasformarsi in industria bellica, produrre camionette invece di automobili? Figuriamoci. Corti marziali? Per carità.

Però una cosa potremmo farla. Ammesso e non concesso che l’Isis abbia un disegno politico più articolato che dimostrare la nostra vulnerabilità e diffondere un certo compiacimento del male per galvanizzare i simpatizzanti, quel piano non può che essere questo: coltivare nelle società cristiane un’aggressività sconsiderata contro i musulmani, tanto le minoranze in Europa quanto le popolazioni in Medio Oriente e nel Nord Africa, e ricavare da questa aggressività un utile militare e politico. Se questo è vero, allora il progetto va sventato in vari modi, uno dei quali è certamente scongiurare quell’aggressività. Multare i titoli del genere ‘Bestie islamiche’? Arrestare i titolisti? Fucilare a mo’ di esempio qualche Finkielkraut? Ordinare un prolungato silenzio ad alcuni tra gli innumerevoli opinionisti che sbrodolano su guerre tra civiltà ed eguaglianza tra l’Isis e tutti gli altri islam? Se davvero siamo in guerra non si può mica andare per il sottile. Bisogna essere spietati, ci dice il geniale Sarkozy. Nessuna pietà per chi è oggettivamente complice del nemico, per dirla con il linguaggio che vuole un conflitto.

Ma proprio perché non siamo in guerra, chi vuole rintronarci con queste sciocchezze dev’essere libero di farlo: e noi non potremo che difendere quel suo diritto. Però, siamo franchi, non ci dispiacerebbe se ogni tanto lo Stato maggiore ordinasse alle redazioni di pubblicare il testo di un Cardini, di un Marramao, di un Bodei, di un Galatino, insomma di quei pochi che in argomento non parlano a vanvera, perché conoscono la storia e il significato delle parole e perché dimostrano una dote non proprio comune nell’informazione: dignità intellettuale e umana.

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