Avevo 13 anni, sognavo di fare il calciatore. Quel giorno, al termine del provino allo Stadio “Ennio Tardini” di Parma, Bruno Mora (a qualcuno forse ricorderà un grande) mi prende da parte e mi dice “Se a te sta bene… noi ti prendiamo”. Il sogno inizia così e termina dopo 8 allenamenti, nel momento in cui il dirigente distribuisce a tutti il buono per le scarpe. Tranne a me. E’ così che la società mi scarica. Il tempo di tornare a casa e mio padre, di poche parole, mi prende da parte (andiamo sul balcone, abitavamo in un appartamento molto piccolo e in quel momento il bagno era occupato). Mi dice “Tu col Parma hai chiuso“. Non ho avuto il tempo di rendermi conto che avevo iniziato.
Oggi mio figlio ha 8 anni, gioca a pallone perché in questo sport ci sono i suoi amici, non si cura del risultato, si diverte. Non sa cosa farà a settembre, dice che intanto si riposa. Ma questa non è la storia di un bambino, l’ennesimo, che viene scaricato in malo modo dalla società, di quelle che si sperticano nel dire che noi facciamo giocare tutti, di quelle che poi si solleva l’indignazione popolare per denunciare il segreto di Pulcinella, che al di là degli statuti giocano (quasi ovunque) i più bravi. E il calcio soffre più di tutti questo stato (per soldi e televisione, basti vedere come il calcio professionistico ha sdoganato le peggiori acconciature su innocenti bambini i cui genitori ci credono tanto).
Questa è la storia, semplice, di un allenatore di calcio, fuori dal coro, che non ha incontrato il favore dei genitori, che a vederlo sembra il fratello maggiore della sua squadra, che allena e si diverte, che ha saputo legare i suoi ragazzi in un gruppo, che oltre al pallone ha suscitato affetto. Poi, un giorno, l’esternazione: “Questi bambini hanno un’età in cui il risultato non conta, si devono divertire, cambiare ruolo, occorre approfittare di questi anni in cui non c’è l’assillo del risultato. E poi… poi io cerco di non star loro addosso quando giocano, di dir loro sempre quello che devono fare, voglio che si sentano liberi di fare con la palla quello che vogliono, voglio che provino la loro creatività, che siano liberi di esprimersi, ecco”.
Il concetto è semplice e meraviglioso e una volta tanto si può dire che il calcio è fatto anche di illuminazioni come questa. Forse per questo la società, non senza pressione di alcuni genitori, ha deciso che l’allenatore non seguirà più la squadra di mio figlio: forse il risultato conta più della creatività, a 8 anni. Buona notte e buona fortuna!