“Un noto uomo politico italiano dice di essere favorevole da 30 anni alla legalizzazione; io se sono favorevole a qualcosa vado avanti e la battaglia la faccio. Non vorrei che qualcuno presentasse una legge oggi e tra 20 anni dicesse “ah ma io l’avevo già presentata 20 anni fa; sono lotte e le leggi vanno avanti se tu nella società imponi il dibattito; passano se tu fai lotte sociali”. Questa frase non è un frammento del dibattito parlamentare sulla cannabis dell’altro ieri ma, che ci crediate o meno, di un altro dibattito pubblico, vecchio quasi 20 anni. Ho impiegato un po’ a trovare questa passaggio ma alla fine c’era, era lì. Per qualche curiosa ragione lo ricordavo quasi a memoria e ricordo a perfezione Marco Pannella mentre lo pronunciava durante un dibattito sulla legalizzazione che insieme ad altri studenti, organizzai – nientemeno – che nel 1997.
Il leader radicale, come accaduto in diverse altre occasioni, fu profetico: alla fine una delle tante proposte depositate in Parlamento per regolamentare la cannabis, e nelle ultime legislature ne sono state depositate diverse, è riuscita ad approdare in aula. Che riesca o meno a dare la spallata finale al grande malato, quel baraccone proibizionista ormai in piedi solo per giustificare la sua stessa esistenza, in realtà è poco importante: se non sarà questa volta, allora certamente sarà la prossima. D’altronde bastava guardare le immagini dell’altro ieri dalla Camera dei Deputati: nel ’97, quando Pannella e Maurizio Gasparri vennero a parlare di cannabis davanti alla platea di studenti del mio liceo, nessuno, neanche lo stesso leader radicale, avrebbe probabilmente immaginato che meno di una generazione dopo l’Italia avrebbe discusso, primo paese in Europa, una legge per legalizzare la marijuana. Gli stessi radicali, avevano puntato per anni sullo strumento referendario, proprio per poter scavalcare il muro insormontabile dei “moderati” trasversali.
Certo, in 20 anni, di acqua ne è passata sotto il Tevere; in primis, il movimento antipro è uscito dal ghetto identitario, finendo per contaminare un po’ tutti gli ambienti. In questi anni, la canna ha smesso di essere riconosciuta dalla società solo come un feticcio “dei fattoni di sinistra” ma è entrata, in semi-clandestinità, con il suo bagaglio di significati simbolici, tra le abitudini e i consumi della società mainstream nel suo insieme.
E per assurdo è stato proprio quello sdoganamento ad aver aiutato in maniera determinante il movimento antiproibizionista: finché a finire nei guai per una canna in tasca era un giovanotto con i “dread” e i piercing, la canna rimaneva un simbolo antagonista, poco visibile e largamente incompreso dalla massa. Ma da quando questo fenomeno si è esteso a tutti gli strati sociali, uscendo dallo steccato identitario, si sono ritrovati in migliaia, frequentatori di centri sociali e non, a condividere le stesse brutte esperienze: segnalazioni al prefetto, perquisizioni, abusi d’autorità di ogni ordine e grado, patenti sospese e nei casi peggiori, il carcere per poche piante. Così in tanti hanno cominciato a chiedersi: “E’ davvero così grave ciò che ho fatto?”. Si può dire che la repressione e internet, in un certo senso hanno contribuito ad unire, sotto una nuvola di fuma, tanto il cittadino comune quanto l’attivista.
Inutile negare, poi, che la rovinosa gestione, da parte delle istituzioni di alcuni tra i più noti casi di malapolizia degli ultimi anni, dalla vicenda Cucchi al caso Uva, abbia accelerato un cambio di prospettiva nell’opinione pubblica già abbastanza evidente da qualche tempo. Ma a monte, rispetto al “duello” al liceo tra Pannella e Gasparri del ’97, c’è soprattutto un’Italia profondamente diversa da quella di allora: la lotta alla droga, prima di diventare – per interessi economici – un baluardo dei cattolici negli anni 70 era stato anche un punto fermo per il Pci, solo timidamente abiurato dalle sue incarnazioni successive. Ci sono voluti quindi un cambio generazionale e un terremoto politico affinché cadesse “il no a priori”, che gran parte della vecchia classe politica aveva sempre opposto; c’è voluto l’arrivo in Parlamento di nati negli anni 80, ossia gente cresciuta in un’epoca di “deideologizzazione” della canna, affinché il disegno di legge discusso l’altro giorno trovasse posto in aula.
Forse era proprio questo il messaggio di Pannella nel ’97: “Le leggi vanno avanti se tu nella società imponi il dibattito”. Negli anni più bui del proibizionismo recente, quando Giovanardi giocava dal Dipartimento Antidroga a fare il direttore del Dea ‘all’italiana’, tra i sostenitori di politiche ragionevoli si parlava solo di limitare i danni; figuriamoci di regolamentare la cannabis. Però il dibattito, minacciato ed osteggiato in ogni modo, non è morto. Anzi. Si è fortificato e al momento giusto ha ripreso quota.
Con la Fini-Giovanardi demolita dalla Consulta, i leoni del proibizionismo di una volta appesantiti dagli anni e dagli slogan, i Giovanardi, i Gasparri e le Binetti, gli stessi che solo poco tempo fa definivano l’opzione antiproibizionista come retorica di “minoranze rumorose”, sembrano niente più che gli ultimi giapponesi, i guardiani di un totem che ormai cade a pezzi. Probabilmente facendo ricorso a “trucchetti contabili” da mestieranti della politica, fermeranno questo disegno di legge ma ciò che a loro, certamente, non riuscirà sarà arrestare la storia (qualunque significato vogliate dare al termine arrestare.)