Il prossimo, possibile, first gentleman degli Stati Uniti ha raccontato, nel corso di un incontro a sostegno della moglie Hillary, della prima volta in cui si sono incontrati e si sono innamorati. Inquadratura ad arte della figlia, in alto, posizionata come s’ha da posizionare una creatura stracolma di commozione, e poi ancora lui, e la gente in platea, sognante, come se rivendere il quadro della famigliola felice fosse ancora possibile. Senza la famigliola, d’altro canto, da quelle parti, non si va in nessun posto. Allora ecco la Hillary descritta da Bill Clinton come una donna decisa, diretta, in azione da anni per produrre cambiamenti in favore della gente, includendo, immagino, il sostegno che lei ha dato alle “guerre umanitarie”.

Al di là della posizione politica di Hillary, della quale mi frega il giusto, quello che mi suscita grande ilarità è la svendita di questo sogno d’amore durato decenni, tra un’elezione presidenziale del marito e l’altra. Tra una fellatio nella sala ovale e l’altra, con tanto di sputtanamento della ragazza che più di tutti pagò la conseguenza di quello scandalo. L’affaire pompino clintoniano misurò il polso della tenuta (stagna) della famiglia Clinton. Hillary non si spostò di un millimetro. Da brava donna di famiglia lo perdonò in pubblico. E se lo aveva perdonato lei, dovevano perdonarlo tutti. Mai càpita, d’altro canto, la becera abitudine, purtroppo ereditata anche da noi italiani, di andare a indagare tra le mutande e le lenzuola delle personalità politiche. Ad essere messa in croce è la sessualità, e, naturalmente, le donne.

Le varie quantità di “zoccola” che furono dirette a quella che resta ancora oggi la “stagista” significarono la separazione tra le donne perbene e quelle per male. Monica Lewinsky resta la donna per male e Hillary è la beddamatresantissima addulurata che in nome della famigghia perdona la “debolezza” del marito. Volendo approfondire io dico che preferirei vedere la Lewinsky come candidata e non la Clinton. Sarà che non tollero una donna che non scardina nulla quando si parla di sessuofobie, sessismi e lettere scarlatte apposte al petto delle donne “poco serie”. La preferirei perché il suo curriculum consta di una voce specifica che non l’abbandonerà mai: “Ha fatto un pompino al presidente degli Stati Uniti d’America”. Preferirei vedere lei perché mi è piaciuto quel che ha detto di recente per raccontare quanto sia alto “Il prezzo della vergogna“, e perché, contrariamente a quel che ha fatto la Clinton, Monica Lewinsky non ha “ucciso” il femminismo per sostenere il marito presidente.

Quello che in ogni caso si intuisce dal discorso di Bill Clinton è che le sue relazioni sono state caratterizzate dalla sua passività. Con Hillary iniziò tutto perché lei attaccò bottone e con la Lewinsky si trattava di relazione nella stanza dei bottoni. Resta la sensazione di vedere in scena un signore che ha dato di sé l’immagine di maschio dalla carne debole, senza assumersi la responsabilità di quello che aveva scelto di vivere, giacché si dice che non sia stato affatto forzato. Resta l’immagine di un uomo funzionale al potere con una moglie ligia e fedele rispetto alla cultura maschilista e patriarcale che oggi propaganda l’unione e la bellezza dell’amore e della famiglia.

Quel che si dovrebbe dire a lei, giacché chiede il voto in quanto donna, come se questo rappresentasse un marchio di qualità, è che se vuole il voto delle donne dovrebbe imparare a non umiliarle, a non dimostrare la propria affidabilità su garanzia di un marito così poco affidabile dal punto di vista privato. Se vuole il voto delle donne dovrebbe avere il coraggio di dire che non le serve questa telenovelas scaduta e ammuffita. Sarebbe il caso dicesse che una donna porta con sé la propria competenza, le proprie capacità, che non acquisiscono valore solo perché hai una fede al dito. Per cambiare le cose serve produrre cambiamenti con le proprie azioni, innanzitutto. E quindi dove, in realtà, questo ridicolo discorso di Bill Clinton rappresenterebbe un progresso?

Tra l’altro, perdonate l’analogia, ma mi ricorda molto la lettera scritta dal marito (non perché lui somigli a Clinton, anzi) di Virginia Raggi, sindaca Cinque stelle di Roma. Come se per assumere quell’incarico istituzionale servisse far sapere che c’era un uomo a sostegno che dichiarava di realizzare la protezione della sindaca. Perciò, car*, quel che va detto è che la dichiarazione d’amore pubblica che acchiappa consensi elettorali è mercificazione dei sentimenti, è la svendita di una giostra emotiva sulla quale sono invitati a salire quelli che non possono fare a meno di cuore/sole/amore al posto di competenza/affidabilità/onestà.

E’ la dimostrazione del fatto che ancora oggi una donna deve raccontare come riesca a tenere ferma la vita privata con tanto di appartenenza a un uomo per essere accettata e guardata con rispetto. Una donna che fa politica altrimenti viene detta donna in carriera, una che non sta coi figli o che abbandona a se stesso un marito. Una che nessuno vorrebbe, uno scarto insomma. Invece no, vedete? Sono donne, stanno in politica, fanno figli, hanno uomini che le amano e le rispettano e dunque è tutto ok. Tutto va bene per tranquillizzare la parte conservatrice dell’elettorato. Verrà mai il giorno in cui a candidarsi alla presidenza sarà un soggetto queer con tanto di discorso della coniuge o del coniuge trans? Potrebbe questo sovvertire quella cultura? Siamo noi a cambiare le regole o sono le regole a cambiare noi?

Per finire, ancora, viva Monica Lewinsky, forever, for president.

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