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Da Kennedy alla strage di Parigi: perché nascono le teorie cospirazioniste e come “smontarle”

"Il complotto ci fa delirare perché ci libera dal peso di doverci confrontare da soli con la verità'", diceva Pier Paolo Pasolini. Ma è sempre sbagliato credere a teorie cospirazioniste? E quando non lo è? Lo abbiamo chiesto ad alcuni esperti che si occupano del fenomeno. Da Massimo Polidoro, segretario del Cicap fondato da Piero Angela, a Sophie Mazet, insegnante francese che in classe insegna ai suoi studenti a distinguere fatti e suggestioni

di Eleonora Bianchini

Massimo polidoro 300“Diffidare è sano. Ma bisogna cercare le prove e affidarsi a chi è competente” – Per Umberto Eco, Massimo Polidoro è “un vero segugio”. Scrittore e giornalista, è segretario del Cicap (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze fondato da Piero Angela) ed è stato docente per tre anni del corso “Metodo scientifico e Psicologia dell’insolito” presso l’Università di Milano-Bicocca. Il suo libro “Rivelazioni. Il libro dei segreti e dei complotti” si propone come “un viaggio rivelatore nei recessi del complottismo mondiale”, “dagli Illuminati all’11 settembre, da Roswell alle scie chimiche”. Che credere a un complotto sia sempre sbagliato? “No – dice Polidoro – ce ne sono stati tanti e ce ne saranno. Mantenere uno sguardo critico nei confronti dell’autorità è sempre sano“. Molte teorie della cospirazione, però, nascono perché “le spiegazioni non ci soddisfano, spesso perché ci fa male accettarle”. A complicare il quadro si aggiunge “una diffidenza diffusa verso l’operato dei governi e delle istituzioni, in diversi casi più che giustificata” che “favorisce un generico sospetto verso le ‘versioni ufficiali’. Il problema – osserva – sorge quando si vanno a cercare complotti dove non ci sono e si trascurano mancanze, deviazioni e complicità dove invece ci sono e che andrebbero smascherate”.

Spesso lo schema che genera l’ipotesi cospirazionista, continua Polidoro, “nasce da una situazione che in psicologia sociale si chiama ‘dissonanza cognitiva’ e consiste nella sensazione di disagio che l’individuo sperimenta di fronte alla consapevolezza di detenere due idee contrastanti e che spinge verso il cambiamento dell’elemento più debole”. Prendiamo l’assassinio del presidente Kennedy. “In questo caso, le idee contrastanti sono che Kennedy, l’uomo più potente e, per molti, anche il più amato del pianeta, fu assassinato da Lee Harvery Oswald, un fallito, un solitario, un signor nessuno. Il regno di Camelot abbattuto da un reietto, insomma”. Una situazione sbilanciata, asimmetrica. “Per ridurre il disagio e riportare l’equilibrio, occorre aumentare il peso dal lato di Oswald: non era solo, c’erano altri cecchini con lui, era solo una pedina della Cia o del Kgb, era innocente e fu trasformato nel capro espiatorio di un complotto tra la mafia, l’Fbi, il vicepresidente Johnson e l’industria militare. Al contrario, non c’è dissonanza cognitiva di fronte a un evento come l’Olocausto, uno dei più tremendi crimini dell’umanità, perpetrato da uno dei peggiori regimi criminali della storia”. Le teorie credibili ci sono, e sono “quelle che portano prove concrete e verificabili e non sono basate sul desiderio ideologico di avere ragione dell’avversario”.

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