Migliaia di mezzi agricoli hanno invaso le principali città italiane nel giorno di protesta organizzato da Coldiretti per denunciare gli attacchi al made in Italy con perdite altissime subite dai produttori per il crollo dei prezzi rispetto allo scorso anno. Secondo i l'associazione ci sono 300mila posti di lavoro a rischio. Gli industriali rispediscono le critiche al mittente: "Il grano estero di qualità salva il prodotto italiano"
La guerra del grano a bordo dei trattori. Migliaia quelli che hanno invaso alcune delle principali città italiane, dalla Sicilia alla Basilicata, dalla Puglia al Molise per una mobilitazione nazionale in difesa del frumento italiano. “Il prodotto italiano è stato colpito da una speculazione da 700 milioni di euro, a tanto ammontano le perdite subite dai produttori per il crollo dei prezzi rispetto allo scorso anno” denuncia Coldiretti, che parla di 300mila posti di lavoro a rischio. Con gli slogan ‘Stop alle speculazioni’, ‘Ci vogliono dieci chili di grano per una Coca Cola’ e ‘No grano no pane’, gli agricoltori hanno occupato le piazze. A Potenza oltre a 3mila agricoltori con 250 trattori, hanno partecipato alla manifestazione anche 56 sindaci. Cinquemila i manifestanti a Bari, dove qualche settimana fa è andata in scena un’altra protesta a causa del calo del prezzo al mercato di Foggia. E sempre dal capoluogo pugliese il presidente nazionale di Coldiretti, Roberto Moncalvo, ha lanciato l’allarme sulle speculazioni, sui prezzi che non coprono i costi di produzione e sugli effetti che questa situazione potrà avere sulla coltivazione di frumento in Italia. “Abbandono e desertificazione di un’area di 2 milioni di ettari, il 15 per cento dell’intero territorio nazionale” secondo l’associazione. Così la protesta si sposta: dai mercati dove settimana dopo settimana si assiste al crollo delle quotazioni alle piazze italiane per far capire che la #guerradelgrano è una questione che riguarda tutti. Dal produttore al consumatore.
LA DENUNCIA DI COLDIRETTI – Nel giro di un anno le quotazioni del grano duro destinato alla pasta hanno perso il 43 per cento del valore, tanto che viene pagato anche a 18 centesimi al chilo, mentre quelle del frumento tenero (adoperato per la panificazione) sono calate del 19 per cento, arrivando a 16 centesimi al chilo. “Un crack senza precedenti – denuncia Coldiretti – con i compensi degli agricoltori che sono tornati ai livelli di 30 anni fa, a causa delle manovre di chi, sui mercati esteri, fa acquisti speculativi di grano da spacciare come pasta o pane Made in Italy”. Dal grano alla pasta i prezzi aumentano di circa del 500 per cento e quelli dal grano al pane addirittura del 1400 per cento. Una prassi possibile per effetto della mancanza dell’obbligo di indicare in etichetta la reale origine del grano impiegato. Per uscire dal baratro, secondo Moncalvo, occorre prima di tutto “l’indicazione in etichetta dell’origine del grano utilizzato nella pasta e nei derivati e della data di raccolta del grano, ma anche il divieto di utilizzare grano extra comunitario oltre i 18 mesi dalla data di raccolta”. Per Coldiretti è necessario poi “fermare le importazioni selvagge a dazio zero”.
SCONTRO SULLE IMPORTAZIONI – Nel 2015 sono stati acquistati dall’estero circa 4,8 milioni di tonnellate di frumento tenero e 2,3 milioni di tonnellate di grano duro. E sono proprio le importazioni, secondo gli agricoltori, ad avere una forte influenza sulla formazione dei prezzi. “Non è un caso – spiega Coldiretti – se nei primi quattro mesi del 2016, secondo un’analisi elaborata su dati Istat, gli arrivi di grano in Italia sono aumentati del 10 per cento”. Il risultato? “Un pacco di pasta su tre è fatto con grano straniero, così come la metà del pane in vendita, ma i consumatori non lo possono sapere”. Per l’associazione si tratta di una strategia “finalizzata soprattutto ad abbattere il prezzo di mercato nazionale attraverso un eccesso di offerta”. Il caso della Puglia è emblematico: tra le regioni è la principale produttrice di grano duro e, paradossalmente anche quella che ne importa di più. Il presidente di Coldiretti Puglia, Gianni Cantele, parla di “una speculazione da 145 milioni di euro” sul grano pugliese. “A pesare – spiega – sono le importazioni in chiave speculativa che si concentrano nel periodo a ridosso della raccolta e che influenzano i prezzi delle materie prime nazionali anche attraverso un mercato non sempre trasparente”.
COSA DICONO GLI INDUSTRIALI – Ma se per Coldiretti “fare pasta con grano 100% italiano si può, come testimoniato dalla rapida proliferazione di marchi che garantiscono l’origine italiana”, così non la pensano gli industriali. “Le importazioni di grano estero di qualità salvano il mito della pasta italiana, sia per quanto riguarda il gusto, sia sul fronte dell’occupazione di 120 aziende pastarie e di 300 mila aziende agricole”. Questa la posizione dell’Associazione delle Industrie del Dolce e della Pasta Italiane, in occasione della manifestazione di protesta di Coldiretti per la tutela del grano italiano. “Secondo i dati Ismea, negli ultimi 7 anni – ha dichiarato Riccardo Felicetti, presidente dei pastai di Aidepi – i valori proteici del grano duro italiano sono stati prossimi o anche inferiori al 12%, mentre il limite dei parametri stabiliti dalla legge di purezza è del 10,5% e, considerando il calo di circa l’1% nel processo di trasformazione da grano a semola, risultano ampiamente al di sotto delle esigenze necessarie per produrre una pasta di alta qualità”.
IL NODO DELLA QUALITÀ – La querelle è nota: secondo i produttori di pasta il frumento importato è migliore tecnicamente (e costa di più) per via dell’alto contenuto di glutine, ma coltivatori ribattono ricordando che lunghi viaggi a bordo delle navi e lo stesso clima umido di Paesi come il Canada favoriscono la presenza di micotossine. Secondo l’Aidepi, invece, “senza importazione di grano estero di qualità, gli agricoltori, paradossalmente, rischierebbero di vendere all’industria meno grano, cioè solo quello che raggiunge i parametri qualitativi della materia prima previsti dalla legge di purezza” con una perdita di ricavi di circa il 50 per cento per gli agricoltori. Sulla stessa lunghezza d’onda l’Associazione Industriali Mugnai d’Italia: “I problemi della cerealicoltura italiana non sono da attribuire alle importazioni, perché senza grano estero si stoppa la produzione di farine e semole destinate all’Industria pastaria, dolciaria e alla panificazione”. C’è chi infine, come Confagricoltura, ritiene che l’Italia abbia bisogno di un processo di rinnovamento tecnologico, perché, come ha dichiarato di recente a ilfattoquotidiano.it Mario Salvi, responsabile settore cereali di Confagricoltura, spesso la struttura logistica italiana “viene ritenuta ancora inadatta a stoccare il grano secondo qualità e questo è diventato ormai un grande alibi”.