In una lettera al Corriere della Sera, l'erede dell'ex premier denuncia chi costruisce grandi imperi a danni di terzi. Dimenticando tutti i guai giudiziari delle imprese di famiglia
Il bue dice cornuto all’asino. E, in più, si lamenta dopo aver scelto liberamente di fare affari con uno squalo. Nello zoo del circo della finanza succede questo ed altro. In una lettera indirizzata al Corriere della Sera, Marina Berlusconi denuncia la finanza “cattiva” che costruisce grandi imperi a danni di terzi. E si meraviglia dell’“incredibile voltafaccia” del raider bretone Vincent Bolloré sull’intesa stretta con Mediaset ad aprile.
Prima di fare affari con il finanziere francese, forse meglio avrebbe fatto la famiglia Berlusconi a confrontarsi con i vecchi amici Ligresti che pure hanno assistito ai voltafaccia di Bolloré, nei delicati equilibri all’interno di Mediobanca, durante il momento più acuto della crisi di Premafin. O magari avrebbero potuto fare qualche domanda in più al finanziere franco tunisino Tarak Ben Ammar, che da 30 anni segue tutti gli affari della famiglia di Arcore. Sin da quando, nel 1984, conobbe Silvio Berlusconi su una spiaggia di Hammamet, luogo che ospitava un Bettino Craxi caduto ormai in disgrazia.
“Sappiamo perfettamente che il mondo degli affari ha le sue dure regole, che la legge del mercato può essere spietata. Ma sempre di regole e di leggi si tratta”, ha scritto nero su bianco nella lettera la figlia dell’ex premier condannato nel processo Mediatrade per frode fiscale sui diritti televisivi. Scesa in difesa dell’azienda guidata dal fratello Piersilvio, Marina – che pure presiede un gruppo editoriale che è stato al centro di una lunga vicenda giudiziaria che ha stabilito che il controllo di Mondadori è stato acquisto dai Berlusconi in modo illecito – stigmatizza “il capitalismo cannibalesco, quello che non crea profitto investendo, definendo progetti industriali, concorrendo e rischiando sui mercati, in una parola creando benessere e opportunità di lavoro”. Magari, come nel caso di Mediaset, operando in un ricco duopolio televisivo che ha impedito lo sviluppo della tv via cavo, oggi utile nello sviluppo della fibra, e ha di conseguenza relegato il Paese agli ultimi posti in Europa per velocità di connessione Internet.
“Al contrario, – prosegue la rampolla di casa Berlusconi, presidente di Finivest, cassaforte che custodisce il pacchetto di controllo di Mediaset e Mondadori – il capitalismo cannibalesco prospera grazie alla distruzione di ricchezza altrui, costruisce il proprio successo sull’altrui rovina”. In sostanza “è come una metastasi che si nutre della parte sana del corpo. Una metastasi che sarebbe gravemente sbagliato identificare con la finanza tout court”, puntualizza Marina alla quale il padre ha affidato Mondadori, protagonista di una stupefacente concentrazione del mercato dei libri italiani grazie alle nozze con Rizzoli. “Quando fa il suo mestiere, la finanza è un supporto prezioso, insostituibile, per le imprese, fornisce loro gli strumenti per dare concretezza alle idee”, prosegue. “È la finanza malata a seguire altre logiche, la finanza dei raider, abituati a scalare società per prosciugarne le casse, a lanciarsi in spericolate speculazioni dove il denaro è virtuale ma i guasti terribilmente reali. Da queste logiche la mia famiglia ha sempre voluto restare rigorosamente lontana. Noi siamo imprenditori”, puntualizza nella lettera il presidente di Fininvest che da anni è presente nel capitale di Mediobanca, salotto buono di tutte le operazioni finanziarie del Paese. E che quindi ben conosce il valore e i giochi della finanza italiana.
Non a caso Marina si spinge fino a parlare dell’etica di un sistema economico sano e del mercato che comporta “correttezza, lealtà, coerenza dei comportamenti, così come la consapevolezza del proprio ruolo e delle proprie non piccole responsabilità, la coscienza che crescere, svilupparsi, creare benessere per tutti sono al tempo stesso degli obiettivi e dei doveri”. Proprio per crescere del resto, Mediaset aveva accettato la corte di Vivendi che avrebbe dovuto accollarsi il pesante fardello di Premium. Ma che all’ultimo momento si è tirata indietro perché ritiene il piano industriale della pay tv del Biscione basato su “ipotesi irrealistiche” come spiega una nota di Vivendi. Eppure, si dicono a Cologno Monzese, i conti di Premium Bolloré li aveva visti. Aveva anche al suo fianco l’amico Ben Ammar a consigliarlo. Per questo l’intera faccenda non torna. Bolloré è un finanziere spregiudicato, ma anche un “industriale che sa contare” come lui stesso si definisce. Mai e poi mai si sarebbe infilato in un complesso contenzioso in terra straniera se non avesse fiutato la possibilità di far soldi e non avesse avuto i giusti appoggi. Non a caso, del resto, Vivendi continua ad “auspicare un accordo con Mediaset e resta dunque aperta alla discussione”.
Difficile che la famiglia Berlusconi accetti un pesante sconto su Premium. Ancora più improbabile che dia il via libera ad un pagamento del 3,5% di Vivendi con un convertendo che aprirebbe le porte di Mediaset ad un nuovo padrone. Stando così le cose, la strategia di Bolloré sembrerebbe destinata a soccombere. Ma se l’oggetto del contendere non fosse lo scambio azionario incrociato del 3,5% di Mediaset e di Vivendi? Se l’obiettivo fosse invece riposizionare Mediaset sul mercato italiano grazie anche a Telecom e poi partecipare ad una più ampia partita europea di integrazione media e telecomunicazioni? Non si può certo dimenticare che ai vertici dell’ex monopolista della telefonia, controllato da Bolloré, c’è Flavio Cattaneo, uomo da sempre vicino a Silvio Berlusconi, suo grande sponsor in Rai. Sarà forse questo lo scenario che si sta delineando nel circo della finanza italiana? Per ora c’è una sola certezza: l’aggressività di Bolloré su Mediaset ha creato il consenso socio-politico necessario a salvare le tv di Cologno monzese dalle mani straniere. Proprio quello di cui c’è bisogno per costruire un nuovo futuro per Cologno. Grazie all’etica della finanza, naturalmente.