Il tema del nuovo album degli Stoop, band nata a Reggio Emilia e sulle scene dagli inizi degli anni Duemila, è ben rappresentato dalla copertina, dove un cane immortalato di spalle osserva il via vai dinanzi a quello che ha tutta l’aria di essere un outlet commerciale. Il titolo Beholders, che sta per “spettatori”, non potrebbe essere più esplicativo. Perché, come spiega il frontman Diego Bertani, è un lavoro sull’osservazione “compulsiva” di ciò che accade nel mondo ma che non suscita alcuna reazione nello spettatore, ormai apatico.
Composto da soli quattro brani, quanto basta per apprezzarne la vasta gamma di suoni proposta e le atmosfere rarefatte che sono in grado di creare, l’approccio è folk-rock per poi svilupparsi in direzioni più o meno psichedeliche. Le influenze sono chiaramente dei Porcupine Tree e nel complesso è un album coraggioso, che sin dalla straniante copertina dimostra la versatilità di questa band capace di coniugare psichedelia ed elettronica con stile.
Diego, che atmosfera c’era durante le registrazioni?
Abbiamo lavorato con un fonico/produttore nuovo e non avevamo le idee chiare su come sarebbe stato il risultato finale. Cambiare il modo di lavorare ha sicuramente dato uno stimolo a provare soluzioni diverse. È un po’ come essere abituati a percorrere una strada e doverla cambiare a causa di una deviazione. A volte si scoprono strade alternative molto belle che non si erano mai percorse.
Come nasce il disco e a cosa vi siete ispirati per la stesura delle canzoni?
Beholders è un lavoro sull’apatia, sull’osservazione compulsiva, un continuo incamerare informazioni su tutto ciò che accade nel mondo che non prevede però nessuna reazione. Mai si è stati osservatori, giudici e talvolta carnefici delle vite altrui come oggi e, allo stesso tempo, è evidente il desiderio di essere osservati e giudicati, di mettere le proprie vite al vaglio degli altri anche se sono perfetti sconosciuti.
I testi come nascono e quali storie raccontano?
Nel primo brano, Beholders, si anela la possibilità di diventare astronauti per fuggire dalla vita terrena, e poter osservare così l’umanità da fuori, senza parteciparvi, per paura o per comodità, un po’ come avviene nel film Gravity di Alejandro González Iñárritu. Il brano che segue, Flags, riflette sul senso di impotenza di fronte a tutto ciò che ci accade. Siamo aggiornati in tempo reale su ogni cosa, ma molto spesso agiamo solo come “opinionisti”. The path parla dell’incapacità di azione, ma sul piano dei rapporti personali. Voltarsi per scorgere il passato e analizzare le paure e gli errori senza avere però il coraggio di superarli veramente. Cheers è un brano sulla capacità di ascolto, ma in questo caso dei segnali della natura.