Proprio come era accaduto a Satam Al Suqami, attentatore dell’11 settembre il cui documento è stato ritrovato “da un agente dell’Fbi” ad alcune centinaia di metri dalle Torri Gemelle. In realtà, secondo la versione ufficiale, il documento fu consegnato da un passante a un agente prima del crollo del World Trade Center (il punto relativo all’attacco del 2001 rimane comunque controverso). Ma le ipotesi del complotto – senza fonte e senza prove – proseguono: si contestano le macchie di sangue sulle magliette (“ma cos’è quello? Succo d’uva?”) o l’assenza di sangue vicino ai corpi delle vittime stese a terra. E ancora: possibile che un ragazzo grazie al suo cellulare sia riuscito a “proteggersi” da una scheggia e che i grandi media fossero già sul posto al momento degli attacchi (“passavano proprio lì davanti, guarda caso”)? E come mai le sedie al caffè Voltaire dopo l’esplosione erano solo fuori posto? Ma a chi se lo domanda non interessa sapere che l’esplosione, in realtà, sia avvenuta all’interno della veranda coperta del locale e che, magari, la potenza delle cinture esplosive fatte in casa non fosse all’altezza di quella di un ordigno potente come quello in grado di fare saltare un bus.
Deduzioni che, quindi, sorgono da prove auto prodotte, fonti non citate, zero fact checking. Storie suggestive che insinuano che dietro agli eventi ci sia un piano ordito “per distruggere diritti e libertà civili dei cittadini in nome della loro protezione” o per “favorire l’ascesa di movimenti neonazisti e anti-islamici, come il tedesco Pegida“. E c’è anche chi, d’accordo con le versioni “alternative della verità” si domanda “chi sia peggio: la gente che mette in scena in complotto o quella che non lo capisce”.