Secondo il consorzio delle charity britanniche Bond, il 12% degli introiti dei loro 400 membri arriva dall’Unione. Le più grandi riusciranno a sopravvivere, le altre faticheranno ad andare avanti con le proprie forze e le donazioni. Anche perché, secondo il National Council of Voluntary Organisations, "i cittadini non si riconoscono più nei valori della società civile". Gli ecologisti: "In pericolo le tutele europee in tema di inquinamento"
L’esito del referendum sulla Brexit mette a rischio il futuro delle ong del Regno Unito. Agli scandali che negli ultimi anni hanno travolto la beneficenza britannica, provocando effetti negativi sulla fiducia nei confronti delle charity, si aggiungono ora, infatti, le incertezze legate ai finanziamenti comunitari. Nel 2015 le ong inglesi hanno ricevuto oltre 145 milioni di euro solo da Echo, il dipartimento per gli aiuti di emergenza dell’Unione europea. Finanziamenti di cui in futuro non potranno più beneficiare, con inevitabile impatto sulle loro battaglie per povertà globale, ambiente, diritti umani. Nel 2013 la rivista Global Journal ha stilato una classifica delle migliori 100 organizzazioni non governative del pianeta, metà delle quali ha sede tra Stati Uniti e Gran Bretagna. E le preoccupazioni degli analisti non sono legate solo alla dimensione finanziaria, ma anche alla capacità di advocacy e lobbying che ha permesso alla società civile inglese di avere un ruolo di primo piano nel panorama internazionale. Al tempo stesso, gli ecologisti segnalano il pericolo che siano messi in discussione i limiti europei su inquinamento e tutela dell’ambiente.
Stop ai finanziamenti Ue alle charity britanniche – Sono diverse le fonti di finanziamento europee per le ong, a seconda degli ambiti in cui si svolge l’attività e dei progetti. Tra i principali donatori di aiuti umanitari al mondo c’è proprio l’Unione europea, attraverso la Commissione e gli Stati membri. Secondo il consorzio delle ong britanniche Bond, il 12% dei ricavi dei loro 400 membri arriva dall’Unione. Le ong possono ottenere finanziamenti nell’ambito di molti programmi previsti dalle varie direzioni della Commissione. In prima linea operano la direzione generale per la Cooperazione internazionale e dello sviluppo (Devco) e quella per gli Aiuti umanitari e la protezione civile (Echo), che finanzia le operazioni di soccorso non solo attraverso le organizzazioni non governative, ma anche le agenzie delle Nazioni Unite e le organizzazioni internazionali. Nel 2014 il 48% dei fondi Echo è stato impiegato da ong, il 36% dalle agenzie e il 14% da organizzazioni internazionali. Cosa accadrà dopo la Brexit? Lo stesso bilancio annuale di Echo, intanto, sarà ridotto in assenza dei contributi provenienti dal Regno Unito. E, come un serpente che si morde la coda, le charity britanniche non potranno più beneficiare dei finanziamenti comunitari. Lo scorso anno 25 ong inglesi hanno ricevuto fondi per un valore pari all’11 per cento della spesa totale di Echo. Come riportato dal blog degli operatori della cooperazione internazionale info-cooperazione.it, a riceverne di più sono state International Rescue Committee (oltre 30 milioni di euro), International Medical Corps (24 milioni e mezzo), Oxfam (quasi 23 milioni), Save the Children (più di 16 milioni).
A rischio le piccole realtà – I finanziamenti più cospicui, dunque, sono andati ai rami britannici di organizzazioni internazionali che hanno sedi sparse in tutta Europa e, in alcuni casi, nel mondo. Ma se le charity internazionali verosimilmente riusciranno a sopravvivere anche senza i finanziamenti Echo (che rappresentano in media il 6% degli introiti totali delle 25 ong finanziate) o ricevendo i finanziamenti attraverso le entità collegate negli altri Paesi europei, in Gran Bretagna sono preoccupate soprattutto le realtà più piccole che perderanno diversi contratti nell’ambito di Echo e EuropeAid-Devco e faranno fatica a restare in piedi senza quelle risorse.
“In declino la fiducia del pubblico nelle ong” – Michael O’Donnell, responsabile del settore Efficacia e apprendimento di Bond, ha le idee chiare su quanto sta accadendo: “La fiducia del pubblico nelle ong è in declino, mentre è ormai pronta una maggiore regolamentazione della raccolta dei fondi”. In un libro il giornalista del Daily Mail David Craig ha raccolto alcuni dei principali scandali delle charity britanniche che, nel complesso, muovono più di 110 milioni euro all’anno.
Sterlina debole e tagli ai contributi inglesi a Ue – L’ultima scossa è stata la svalutazione della sterlina nel post Brexit. La fluttuazione dei tassi di cambio, infatti, potrebbe rendere ancora più instabile il panorama. E sul fronte finanziamenti arrivano segnali poco rassicuranti anche dal Dipartimento per lo sviluppo internazionale del Regno Unito. “Il Dfid ha sempre contribuito al budget annuale di Echo per una percentuale che varia dal 15 al 20%”, ha sottolineato di recente Toby Porter, amministratore delegato di HelpAge International (ong finanziata da Echo con 1,6 milioni di euro) ricordando il contributo del Regno Unito allo sviluppo dell’Unione europea e dei bilanci umanitari. Un ruolo, quello della Gran Bretagna, che potrebbe ora ridursi notevolmente.
Le ong: “I cittadini non si riconoscono nei valori della società civile” – Già all’indomani del referendum Elizabeth Chamberlain, del National Council of Voluntary Organisations, l’organizzazione che riunisce le principali ong britanniche, ha posto l’accento sul fatto che il dibattito pro Leave “ha confermato che gran parte dei cittadini non si riconoscono nei valori della società civile”. Dalla solidarietà al pluralismo, dalla giustizia alla non discriminazione, tutte alla base delle attività portate avanti dalle ong. Alla recente confederazione europea delle organizzazioni non governative britanniche (Concord), il consorzio Bond ha manifestato molte preoccupazioni sulla tenuta della capacità della società civile inglese di advocacy e lobbying. Non è solo dunque una questione puramente economica, quanto di efficacia di determinate battaglie condotte dalle organizzazioni non governative.
Gli ecologisti: “A rischio le norme anti-inquinamento” – E c’è un ulteriore aspetto: tra i primi a preoccuparsi all’indomani del referendum sono stati gli ambientalisti britannici. Perché se negli ultimi anni l’Unione europea ha comunque esercitato una certa pressione sul governo di Londra affinché approvasse norme ambientali più severe, ora il rischio è che si possano allentare i limiti anti-inquinamento dettati prima dall’Unione. Proprio quei paletti che hanno permesso alla ong di denunciare il governo di Londra per gli sforamenti in molte città. Cause legali avviate dall’Unione hanno costretto la Gran Bretagna a ripulire le sue spiagge inquinate dai liquami. Molte delle tutele per l’habitat e la fauna selvatica nel Paese nascono da norme Ue. Bruxelles ha spinto la Gran Bretagna anche verso il riciclo dei rifiuti. Un sondaggio della Iema, l’associazione mondiale dei professionisti dell’ambiente, condotto fra 4mila esperti britannici del settore, ha rivelato che l’82% di loro ritiene che “operare all’interno dell’Ue fornisce un panorama politico più stabile e quindi potenzialmente più efficace”.