Il mio viaggio nella Calabria nascosta inizia, paradossalmente, da ciò che di più noto e visibile questa terra possiede, i Bronzi di Riace. Prima di accedere alla sala in cui sono esposti – nel Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria, riaperto lo scorso aprile dopo 10 anni di restauri – si deve sostare per tre minuti in una “stanza di purificazione”, un cubicolo con le pareti bianche attraversato da lievi correnti d’aria che eliminano dagli abiti polveri e impurità. Poi la porta della sala si apre all’improvviso e i Bronzi sono lì, maestosi, con quella muscolatura perfetta e guizzante da renderli quasi vivi e pronti all’attacco. Nonostante la posizione degli arti sia simile, il Bronzo A, l’oplita, appare più giovane e aggressivo; quello B, il Re Guerriero, più anziano e riflessivo. Dopo qualche istante mi rendo conto che sto iniziando a guardarli solo attraverso lo schermo del mio cellulare e allora lo maledico, me lo infilo in tasca, alzo gli occhi e resto in contemplazione.
Dal centro cittadino mi sposto verso il profondo Sud d’Italia percorrendo la strada statale 106, che puntella tutta la suola dello stivale da Reggio fino al porto di Taranto. Il tratto più critico della SS 106 è proprio quello calabrese: 400 e rotti chilometri di carreggiata a due sole corsie, una lingua di asfalto bruciato dal sole che si incunea tra gli strapiombi della costa jonica calabrese, seguendone a fatica la silhouette aspra e contorta. Aldilà del finestrino scorre la litoranea: chilometri di spiagge selvagge, che in alcuni tratti perdono parte della loro bellezza a causa del panorama che le circonda: casolari abbandonati e tante, troppe vecchie fabbriche dismesse, che fanno tornare in mente il destino dello stabilimento Sir di Lamezia Terme, la società di resine fenoliche che in mano all’imprenditore Angelo Rovelli divenne negli anni ’70 un mastodonte da 13mila dipendenti, prima che l’azienda si dissolvesse in un collasso finanziario la cui eco giudiziaria è giunta fino ai giorni nostri.
Arrivo a Condofuri, un paesino del reggino alle pendici dell’Aspromonte. È qui che conosco l’avvocato e imprenditore Ezio Pizzi, che mi spiega come la Calabria abbia anch’essa il suo “oro”: il bergamotto. In Italia questo agrume, la cui origine è ignota, cresce e viene coltivato solo alla estrema punta dello Stivale, tra Villa San Giovanni e Gioiosa Ionica. È qui, in piena zona grecanica, che prende forma e sostanza uno dei pochi business locali di respiro internazionale. Il bergamotto – quasi sconosciuto nel resto d’Italia, ma esportato in Francia, America e Inghilterra – è il prodotto agrumicolo più remunerativo in assoluto: in tutta la regione il comparto occupa 6mila persone e produce 100mila chili di essenza che vengono venduti a poco più di 100 euro al chilo. Gran parte del bergamotto viene usato nell’industria cosmetica – i due terzi dei profumi venduti in tutto il mondo lo contengono – ma recentemente, anche se ancora in piccolissima parte e perlopiù solo in Calabria, sta crescendo il suo utilizzo in quella alimentare, da quando alcuni studi scientifici hanno dimostrato che il succo di questo agrume abbassa il colesterolo e ha proprietà antidiabetiche.
È ora di ripartire. Resto nel comune di Condofuri, ma salgo in alto, a 600 metri, per fare un tuffo nel passato. Dopo una ripida salita (in macchina) sui sentieri dell’Aspromonte giungo a Gallicianò, l’unico borgo calabrese ancora interamente ellenofono. Uno degli ultimi abitanti, oggi ne restano una quarantina, è Raffaele: 89 anni, 4 figli, 18 nipoti e 23 pronipoti; quasi tutti sono andati via, lui è rimasto nel paesello. Poco o nulla che sia modernità ha fatto breccia in questo luogo custodito dalle montagne. I Gallicianesi sanno cosa c’è fuori? Desiderano qualcosa che non hanno? La risposta a queste domande non avrebbe senso, perché prenderebbe in considerazione una serie di fattori che esistono solo nel nostro mondo e nella nostra testa. È giusto così allora: che questo posto resti com’è, cristallizzato nelle montagne, immobile e bellissimo.
Mi sposto a Bivongi, due ore e mezza di auto più a nord. Questo paese ospita 1300 abitanti di cui 14 ultracentenari viventi negli ultimi sei anni e 40 ultranovantenni. A Bivongi – che da queste parti chiamano Bivongiwood, perché il sindaco Felice Valenti ha fatto un tentativo un pochino maldestro di mettere la scritta della città su un costone della montagna – gli ultracentenari sono lo 0,14 per cento della popolazione, contro lo 0,03 d’Italia. Questo rende Bivongi uno dei paesi più longevi d’Europa, oltre che il detentore insieme all’isola di Okinawa in Giappone del primato mondiale dei maschi che vivono più a lungo.
Proprio così. Nelle zone montuose dell’entroterra reggino sono soprattutto gli uomini a morire in età avanzata. Dicono sia l’aria, la mancanza di stress, la cucina povera fatta di verdure e legumi (cucinati dalle donne). Qualcuno, con un tocco di realismo magico, è convinto che la Vallata dello Stilaro che raccoglie Bivongi sia baciata dalla benedizione dei santi locali. E ce ne vogliono di santi se, come alcuni sussurrano da queste parti, qui “Il pizzo non lo chiedono”. Sarà forse anche per questo che Francesco Carnovale sta provando a trasformare Bivongi in un paese-albergo diffuso, ristrutturando vecchie abitazioni abbandonate. Tra queste c’è l’Antico Casale, un’antica casa trasformata in B&B che è il top per l’accoglienza turistica in questo posto, grazie anche alla possibilità di assaggiare la vera cucina povera calabrese. Quando cala la notte sul centro storico di Bivongi – un labirinto di stamberghe abbandonate dal fascino irresistibile – Francesco guarda il cielo sperando che la sua Calabria esca dal torpore congenito che la avviluppa da troppo tempo e si trasformi in un grande luogo di accoglienza turistica.
Fine della prima parte