Una riflessione in omaggio a Luigi Mattucci
L’articolo che segue vuol essere un omaggio a Luigi Mattucci, che è venuto a mancare in questi giorni: uno dei migliori dirigenti nella storia della Rai, un socialista riformista, un intellettuale a tutto tondo. Nei sette anni in cui sono stato direttore delle relazioni esterne della Rai ho lavorato moltissimo con lui, che come capo della Segreteria del Cda riusciva a gestire con determinazione e diplomazia il caravanserraglio di ben 16 consiglieri, nominati dai partiti con il bilancino della lottizzazione.
Fra l’altro, con il suo determinante sostegno diedi vita al più importante festival internazionale di fiction Tv. Poiché Mattucci è sempre stato un sostenitore del ruolo di “servizio pubblico” della Rai, proverò a dire in modo molto sintetico cosa penso si dovrebbe fare per rendere reale questo ruolo. A mio avviso, il problema di fondo della Rai è la sua più che anomala natura giuridica.
Entrata a far parte del gruppo Iri nel lontano 1952, la Rai è formalmente una società di diritto privato, benché il suo capitale sia detenuto per il 99% dallo Stato e l’unico azionista di minoranza, con l’1%, sia la Siae. Un capolavoro della creatività giuridica italiana, un ircocervo, una società per azioni in cui le nomine di dirigenti e le linee programmatiche non vengono se non in minima parte dall’azionista (prima l’Iri, ma sempre “pro-forma”, poi il Ministero dell’Economia) ma dal Parlamento, tramite una Commissione di vigilanza rigidamente lottizzata e del tutto inconcludente.
Questa situazione giuridico-istituzionale fa inevitabilmente della Rai una “non azienda” e limita – assieme alla nomina di vertici aziendali che per lo più non sanno nulla di tv – la sua capacità di svolgere il famoso “servizio pubblico” radiotelevisivo. Per ragioni di spazio devo limitarmi ad alcune proposte, senza poter approfondire la loro motivazione:
1) Lo Stato, rilevando l’1% di azioni della Siae, deve fare in modo inequivocabile della Rai una azienda pubblica (il che, fra l’altro, risolverebbe il problema del tetto agli stipendi ai dirigenti).
2) Le nomine del Cda Rai (cinque consiglieri) sono effettuate dal Ministero dell’Economia, su una rosa di nomi forniti dalla Commissione di vigilanza. Il Presidente è nominato dal Capo dello Stato. Il Direttore generale dal Cda. IL Dg deve avere nel suo curriculum specifiche e significative esperienze professionali nel campo dell’audiovisivo. Ma su questi criteri di nomina le varianti possibili sono parecchie.
3) La Rai – oltre a quelle specialistiche del digitale – conserva le sue tre reti. Essendo finito, con l’avvento del digitale, il problema della scarsità delle frequenze, non si vede perché una azienda dovrebbe privarsi di uno dei suoi fondamentali assets. Basta perdere tempo con le “privatizzazioni”.
4) Senza ovviamente privare la Rai dei programmi di intrattenimento, all’azienda dovrebbero essere assegnati – tramite il contratto di servizio – compiti assolutamente prevalenti di servizio pubblico, tenendo conto delle drammatiche carenze culturali denunziate fin dal 2010 dal prof. De Mauro e peggiorate in questi anni per l’uso dei nuovi strumenti informatici come una specie di droga che isola le persone, e soprattutto i giovani, dalla realtà della vita.
5) Senza ovviamente entrare in una indicazione di programmi, vorrei evidenziare due punti. Il primo riguarda i contenuti di servizio pubblico: a fianco dei temi di cui si parla più frequentemente (la lettura e lo spettacolo “alto”: musica, teatro, cinema di autore) porrei alcune funzioni di servizio in senso tecnico (corsi di lingue straniere e di informatica) e altre di servizio in senso civico e morale. I diritti civili e i corrispondenti doveri (pagare le tasse, lavorare con impegno, osservare le regole del vivere civile) sono alcuni dei temi centrali di quella “educazione civica” che Aldo Moro introdusse come materia obbligatoria nelle scuole nel 1958, ma di cui, dalle elementari al liceo, si sono perse le tracce, con i risultati di imbarbarimento della società che abbiamo dinanzi agli occhi. Essa dovrebbe divenire la mission centrale per la Rai, senza “censure” su temi come le scelte di fine vita o l’omofobia, che interessano larghe fasce del pubblico della Rai. Il secondo punto riguarda la necessità di “spalmare” il ruolo di servizio pubblico su tutte e tre le reti tv, non affidandolo alla “riserva indiana” di Rai tre o ai canali del digitale terrestre.
Infine – punto fondamentale – nel contratto di servizio l’obbligo di realizzare programmi “di servizio pubblico” dovrebbe essere accompagnato dalla precisa direttiva di non relegarli in orari di basso ascolto, indicando precise fasce orarie. Chi ha voglia di ragionarci?