Non è una guerra di religione eppure a volte lo sembra. Ma gli animalisti che bersagliano gli scienziati non potranno più tracimare. I ricercatori non possono essere chiamati “vivisettori” o “torturati“. Definirli così è una diffamazione. E diffondere i dati di coloro che si occupano di sperimentazione animale – come è per esempio avvenuto due anni fa per gli scienziati dell’Università di Milano – lede il loro diritto alla riservatezza. Chi lo fa potrà essere condannato a pagare un risarcimento. Come è avvenuto per la promotrice di un sito che aveva messo nel mirino un laboratorio nel Torinese. La donna dovrà pagare 80mila euro all’istituto e 12mila, 18mila e 30mila ai tredici camici bianchi attaccati più o meno duramente. Diventati bersagli cui “fare degli scherzetti” e che nel tempo sono stati anche vittime di “molestie“.
I giudici della terza sezione civile della Cassazione, il 19 luglio scorso, hanno confermato la condanna nei confronti della donna, la cui posizione in sede penale era stata archiviata, che aveva preso di mira l’Istituto di Ricerche Biomediche “Antoine Marxer” e i suoi dipendenti. In un paese, il nostro, in cui il reato di tortura ancora non esiste gli scienziati che si occupano di ricerca biomedica sono spesso attaccati da chi sostiene l’inutilità e la crudeltà dei test. Eppure proprio in Italia vige una norma così restrittiva da aver costretto l’Ue ad attivare una procedura di infrazione. Inutile ricordare ai più come la sperimentazione animale abbia permesso di mettere a punto farmaci e vaccini che hanno debellato malattie mortali. Quasi il 90% delle cavie usate in laboratorio è formata da topi, i cani sono lo 0,10% e le scimmie lo 0,06%. La vivisezione in Italia non è praticata. Del resto come aveva spiegato al fattoquotidiano.it Carlo Alberto Redi, accademico dei Lincei e professore di Zoologia e Biologia dello Sviluppo all’Università di Pavia: “A titolo di promemoria storico varrà la pena ricordare che l’unico Paese al mondo che abbia mai proibito del tutto la sperimentazione animale è stata la Germania nazista“.
E adesso in 29 pagine di motivazione gli ermellini, presidente Adelaide Amendola e relatrice Giuseppina Luciana Barreca, spiegano perché va confermata la condanna di secondo grado (anche i giudici del Tribunale avevano emesso un verdetto in questo senso, ndr). Se è vero, come ricorda il giudice, che i magistrati dell’Appello hanno dato per ammesso, che “i termini vivisezione, vivisettori e visezionisti” (usati sul sito in questione) “abbiano assunto un’accezione ampia che non ne limita il riferimento alla ‘dissezione anatomica di animali vivi’, ma li riferisce alla sperimentazione animale in genere” e “dopo aver dato per riconosciuto che a questa ampia accezione si debba fare riferimento nella valutazione del diritto di critica” allo stesso tempo hanno ritenuto “che detti termini, usati sul sito internet connotassero negativamente dal punto di vista etico l’attività di sperimentazione”.
Un messaggio la cui portata risultava aumentata “dall’accostamento a termini come ‘tortura e morte‘ per gli animali che alla vivisezione richiamano”. Per i giudici quindi venivano “sottolineate la crudeltà e l’arretratezza di detta attività che viene correlata alla sua affermata inutilità scientifica“. Termini per i magistrati inaccettabili anche perché non era stato dato spazio alla posizione dei ricercatori individuati solo come “nemici da combattere con qualsiasi mezzo”.
Dal sito, inoltre, era partita anche una campagna di protesta contro i dipendenti della RBM e si invitavano gli utenti a “diventare la coscienza critica dei vivisettori” dopo aver diffuso i loro dati. Così i giudici hanno anche concluso che la promotrice del sito non si è limitata a esporre la sua tesi ma ha “propagandato e organizzato” un attacco per vie dirette e indirette alla Rbm e ai suoi dipendenti utilizzando “‘toni e contenuti gratuitamente offensivi‘”, stimolando “‘contrapposizione e aggressività al fine di prevaricare la posizione antitetica con ogni mezzo'”. E anche se è possibile offendere in quanto “l’offesa è scriminata quando essa sia indispensabile per l’esercizio del diritto di critica” – ricordano sempre i giudici citando un’altra sentenza della Cassazione – restano comunque “punibili le espressioni gratuite… in quanto inutilmente volgari o umilianti o dileggianti od offensive”.