Chi si trovava in città, quel 2 agosto 1980, il boato dell’esplosione alla stazione ferroviaria di Bologna lo ricorda ancora come fosse ieri. Le macerie in piazza Medaglie d’Oro, le grida dei feriti, la polvere che soffocava occhi e gola. E poi i camici bianchi di soccorritori e infermieri, che lavorarono notte e giorno, in prima linea per tentare di arginare la ferita provocata dalla più efferata strage messa in atto in Italia dal dopoguerra. Trentasei anni dopo, per ricordarli, e per raccontare la tragedia dal punto di vista di chi prestò soccorso, il Collegio bolognese degli infermieri Ipasvi ha organizzato nella propria sede la mostra Due minuti dopo, inaugurata il 29 luglio, alla presenza di sopravvissuti e soccorritori. Cinquanta scatti in bianco e nero realizzati quel 2 agosto dal fotografo Paolo Ferrari, acquistate ed esposte dall’Ipasvi “per non dimenticare né quel terribile massacro, né l’incredibile risposta umana e sociale di una città ferita contro il terrorismo”.
“Il 2 agosto fu il nostro 11 settembre – racconta Pietro Giurdanella, presidente della fondazione bolognese – all’epoca l’Italia non era preparata a gestire un così alto numero di feriti, non c’era il 118, che nacque proprio in seguito alla strage. Sì, avevamo qualche ambulanza, ma fu l’imponente opera di solidarietà messa in atto da soccorritori e cittadini volontari ad avere un ruolo chiave in quella tragedia. Ed è questo ciò che vogliamo tramandare tramite la mostra, soprattutto in un momento in cui l’Europa si trova a fare i conti con fatti altrettanto drammatici”.
Le 50 immagini, esposte assieme alle opere del Collettivo Artisti Irregolari e agli scatti a colori realizzati dal fotografo Paolo Righi, a tracciare un parallelo tra i mezzi a disposizione dei soccorsi ieri e oggi, raccontano, momento per momento, i minuti successivi all’esplosione dell’ordigno piazzato nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna. Il cui scoppio, alle 10.25, provocò il crollo delle strutture sovrastanti le sale d’aspetto di prima e seconda classe, dov’erano gli uffici della Cigar, di 30 metri di pensilina, e travolse il treno Ancona – Chiasso in sosta al binario 1. Il bilancio, 85 morti e 200 feriti.
C’è l’autobus 37, che divenne un’ambulanza quando i mezzi di soccorso si rivelarono insufficienti a caricare morti e feriti, e ci sono gli infermieri che si fanno largo tra le macerie. Ma c’è anche il dolore e lo sgomento impresso sui volti di chi, quel giorno, lavorava in ospedale, e fece fatica a dormire per mesi, poi, al ricordo delle famiglie disperate che piangevano i propri cari uccisi nella strage. Come Roberto Marcucci, che quell’agosto di 36 anni fa era in servizio al pronto soccorso del policlinico Sant’Orsola. “A un certo punto le barelle finirono, così stendemmo lenzuola sul pavimento, non sapevamo più da che parte giraci. Arrivarono ad aiutarci colleghi da altri reparti, e tanti che erano in ferie rientrarono di corsa per dare una mano. Andammo avanti fino a notte inoltrata, sfiniti e con gli occhi pieni di lacrime per quei brandelli di bimbi che ci portavano con dei sacchetti. Non dimenticherò mai”.