Jean Léon Jaurès, politico e pacifista francese ucciso nel 1914, affermava: “La tradizione non consiste nel mantenere le ceneri, ma nel mantenere viva una fiamma”. Quello che da svariati decenni accade in Italia con la tradizione lirico-sinfonica ha più a che fare con le ceneri che con la fiamma, in un trend assolutamente negativo che potremmo riassumere nelle seguenti parole: massimo sforzo, minima resa. A fronte infatti dei fondi pubblici provenienti dal Fus (Fondo Unico per lo Spettacolo), il “comparto” lirico-sinfonico rende assai meno di quello che dovrebbe: i conti, quasi sempre in rosso, non rendono giustizia all’enorme fetta di contributi pubblici che, anno dopo anno, vengono destinati alle fondazioni lirico-sinfoniche. Solo nel 2014 la percentuale del Fus garantita ai nostri enti lirici ammontava al 45,61% del totale, che tradotto in cifre equivale a quasi 184 milioni di euro su un totale complessivo di circa 403 milioni.

fusColpa delle fondazioni? Forse, ma non solo: quello che in Italia, a differenza di altri paesi europei, incide negativamente sui numeri è la grave assenza di pubblico. Non esiste infatti nella patria del bel canto un pubblico specificamente formato all’ascolto della musica di tradizione, e le cifre parlano chiaro anche in questo senso: a fronte dei 9 italiani su 100 che nel 2013 andavano all’opera o più in generale a un concerto di musica classica, più del doppio (19) andava a teatro, ancora qualcuno in più (21) si recava in un sito archeologico e quasi il triplo (26) andava a una mostra o in un museo. A rincarare la dose è il dato proveniente dalla fruizione culturale di internet, dove tra i vari settori di navigazione possibili (monumenti e siti archeologici, musei e mostre, teatro, cinema, ecc.), nel 2013 quello lirico-sinfonico contava l’afflusso meno significativo: 9,5 persone su 100.

Dati, quelli appena esposti, che si mantengono sostanzialmente invariati fin dal 2005, costringendoci quindi a una domanda: dove risiede la causa di una così evidente distanza del pubblico italiano da auditorium e teatri d’opera? Non sarà che a determinare tale situazione sia la più totale assenza di educazione musicale (storia della musica, introduzione all’ascolto, ecc.) da qualsiasi scuola superiore italiana? “Ritengo che lo studio della musica debba essere inserito a partire dalle scuole dell’infanzia come insegnamento obbligatorio – afferma il presidente Anfols (Associazione Nazionale Fondazioni Lirico Sinfoniche) Cristiano Chiarot – Non si capisce come mai nel nostro Paese, che ha fatto la storia della musica e possiede il più importante patrimonio musicale mondiale, l’insegnamento della musica sia considerato uno studio accessorio anziché, al pari della letteratura, della matematica, della storia, della geografia, eccetera, andare a completare un necessario percorso formativo”.

E in effetti, al contrario della storia dell’arte e della letteratura, la storia della musica non viene organicamente insegnata in nessuna scuola italiana di qualsiasi ordine e grado (fatti salvi i tre anni di scuole medie e, per ovvie ragioni, i neonati Licei Musicali). Cosa accade invece in paesi come la Germania, dove il volume d’affari dell’industria musicale ha registrato, dal 2009 al 2014, un +23,8%? In Germania, paese nel quale i giovani seguono i concerti di musica classica tanto quanto si recano a teatro o nei musei, esiste un pubblico appositamente formato alla frequentazione delle grandi occasioni musicali liriche e sinfoniche. Al di là infatti delle Musikschulen (scuole di musica presenti in quasi tutti i comuni), senza vincoli di accesso e in grado di animare la vita musicale di ogni cittadina, nella scuola pubblica tedesca l’educazione musicale inizia dall’asilo per proseguire, in modi vari, fino all’ultimo anno di scuola. Un paese, la Germania, dove dal 2009 al 2013 gli investimenti nell’industria culturale e creativa sono cresciuti del 7,2%, a fronte di una clamorosa riduzione italiana, nel medesimo periodo, del 29,9%.

È del 2013 la disposizione dei piani di risanamento per ben 8 delle 14 fondazioni liriche esistenti, tra cui il Petruzzelli di Bari, il Massimo di Palermo, il Verdi di Trieste e l’Opera di Roma. Un piano, come recita il testo di legge, che interviene “al fine di far fronte allo stato di grave crisi del settore e di pervenire al risanamento ed al rilancio delle fondazioni lirico-sinfoniche”, ma che, come sottolineato dalla Corte dei Conti nell’ultimo controllo effettuato, relativo all’esercizio del 2014, pare non sortire gli effetti sperati: “L’esame delle risultanze di bilancio relative al suddetto esercizio conferma la generale situazione di difficoltà del settore delle fondazioni liriche italiane”. L’ammontare complessivo dei debiti, che è doppio di quello dei crediti, è dunque in ulteriore aumento secondo l’organo statale di controllo fiscale, che rileva inoltre come “le risorse proprie delle Fondazioni provenienti dai ricavi da vendite e prestazioni hanno registrato, nell’esercizio in esame, una preoccupante riduzione (-8,5 per cento)”. Ricavi che vanno poi a incidere in modo molto poco significativo sia per quanto concerne la produzione (dove coprono appena il 26,3 per cento) che relativamente ai costi gestionali (per un 25,4 per cento).

pubblicoInsomma, per restare all’ultimo anno sul quale si hanno a disposizione dati ufficiali, il 2014, il ricavo totale delle fondazioni liriche italiane era di 229 milioni di euro, a fronte di una spesa pubblica del Fus (alla quale si vanno a sommare poi altri ordini di finanziamento) di 184 milioni: massimo sforzo, minima resa. Auspicabile, come indica sempre la Corte dei Conti, un maggior coinvolgimento dei privati, una soluzione che resta però un semplice palliativo se il problema non viene inquadrato e risolto alla radice. “Da una parte – continua ad affermare Chiarot – sono stati istituiti i Conservatori, i cui giovani diplomati non si sa dove andranno ad essere impiegati nel nostro Paese, e dall’altra parte l’insegnamento di base è stato completamente abbandonato. Io credo che uno Stato come l’Italia non possa non trovare risorse per organizzare l’insegnamento della musica”. Insomma, quando l’Italia inizierà a formare il proprio pubblico musicale la sua grande tradizione di settore potrà tornare a essere fiamma creando economia di mercato, nella più sana logica del minimo sforzo-massima resa.

A incidere inoltre in modo negativo sulla resa delle fondazioni liriche sono poi le nomine dei vertici, decise sempre e solo a livello politico e, nonostante i milioni di investimenti pubblici, senza passare mai per bandi di concorso. Emblematica in tal senso la nomina, nel 2011, di Salvatore Nastasi a consigliere del Teatro San Carlo di Napoli, con la conseguente nomina da parte di quest’ultimo della moglie, Giulia Minoli, ai vertici del Memus, il Museo del Teatro San Carlo. Si incontrano così direttori artistici senza alcun titolo musicale, sprovvisti finanche della più elementare licenza di teoria e solfeggio, o sovrintendenti, sempre e solo di nomina politica, come Fabio Carapezza, al Massimo di Palermo fino al 2014 e durante la cui gestione si fece ricorso, per una Giselle, ad una compagnia di ballo minore di San Pietroburgo, avendo il Teatro palermitano smantellato la propria.

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