Cattivo per eccellenza nelle favole dei bambini, archetipo della bestia selvaggia che incarna male e distruzione, ma anche animale affascinante in parte avvolto nel mistero, che nel tempo ha dovuto lottare e anche cambiare pelle per sopravvivere all’uomo. Dopo anni in cui in Italia è stato a rischio di estinzione, il lupo è ritornato a colonizzare la penisola. Da nord a sud si contano circa duemila esemplari, gioia per gli ambientalisti, cruccio per chi con il re dei boschi deve ora ricominciare a fare i conti, come allevatori e contadini, ma anche abitanti delle frazioni montane, che si ritrovano a elencare i danni su greggi o animali domestici uccisi, e a volte ad avere di nuovo paura del lupo, proprio come in passato. “Non è più sicuro andare nei boschi – dicono alcuni – Le istituzioni devono fare qualcosa”.
Predazioni e avvistamenti: la gente ha paura
Nei comuni montani in cui il più grande predatore d’Italia ha fatto la sua ricomparsa, il dibattito è aperto tra chi lo ama e cerca di studiarlo e chi invece lo considera un pericolo di cui sbarazzarsi, come dimostrano gli episodi di bracconaggio che si verificano in alcune zone. Perché i lupi, che per anni sono stati quasi creature leggendarie e difficilissime da incontrare, sono sempre più spesso al centro delle cronache, e non solo per gli avvistamenti. Ci sono predazioni su greggi e allevamenti, nelle aziende faunistiche caprioli e cinghiali vengono sbranati. Altra cosa che preoccupa i residenti che vivono fianco a fianco con i branchi sono i comportamenti anomali per la specie, come gli attacchi subiti dai cani durante le battute di caccia e non solo, e ancora di più i casi di lupi che si sono avvicinati alle abitazioni.
“Questa è una zona per fungaioli ed escursionisti, potrebbe esserci pericolo se non si controlla il fenomeno” spiega Didier Spagnoli dell’azienda faunistica Alta Val Manubiola, sull’Appenino parmense, che nei boschi tra il comune di Berceto e di Borgotaro ha spesso immortalato i lupi con fototrappole oppure trovato i resti delle loro prede. “Si avvicinano sempre più alle case – aggiunge intimorito Gino Barattieri, guardia ecologica residente nella zona – Io nel bosco vado sempre con il coltello, ma ho paura a lasciare i miei nipoti giocare fuori all’aperto”. Per gli abitanti della Val Taro, a due passi dalla Toscana, il problema non sono soltanto i lupi “puri”, che solitamente non si avvicinano all’uomo, ma gli ibridi, cioè gli animali incrociati con i cani randagi, che lasciati in natura, avrebbero atteggiamenti diversi rispetto a quelli di un branco. “Sono più pericolosi dei lupi – dice la gente – non hanno paura dell’uomo”.
Gli allevatori divisi: contro e pro lupo
A fare le spese più di tutti del ritorno dei lupi sono però gli allevatori, che dalle predazioni subiscono danni economici: la perdita si aggira dai 300 euro per una pecora uccisa fino a cifre più consistenti per animali più grandi come vitelli o cavalli. Da Ostuni a Grosseto, dove la presenza dei branchi è più consistente, da La Spezia al Trentino Alto Adige, fino alla Val D’Aosta, salgono le proteste di chi è esasperato di dover lavorare sotto la continua minaccia di razzie. Pochi giorni fa nel torinese Coldiretti ha lanciato l’allarme dichiarando che la sopravvivenza della pastorizia è a rischio e chiedendo alle amministrazioni misure per ristabilire “un giusto equilibrio tra la presenza del lupo e quella degli allevatori”. Alcuni palliativi esistono già: i parchi naturali e le Regioni offrono contributi per risarcire gli animali predati, ma solo se l’Ausl certifica che la morte è avvenuta a causa dei lupi.
Chi abita al di fuori delle riserve però, deve fare i conti anche con una burocrazia più complicata: “Tra carte bollate e tempi lunghissimi, costa quasi di più chiedere il risarcimento che non far nulla” si lamenta Torquato Bertonelli, che nella sua azienda agricola nel comune di Berceto, ha subito diversi attacchi al suo gregge e si è dovuto attrezzare con pastori maremmani e un recinto elettrificato, rimettendoci la possibilità di lasciare le sue pecore al pascolo in libertà. “Che stiano i lupi dentro i recinti, non le pecore e le capre” protestano i pastori, con un copione che è lo stesso in tutto lo Stivale, perché “difendersi dalle predazioni richiede investimenti che non tutti possono permettersi”. Ma c’è anche chi con i lupi ha imparato a convivere e a far convivere il proprio bestiame. Alcuni allevatori e titolari di aziende agricole si sono organizzati con recinti elettrificati mobili o fissi e con pastori maremmani o abruzzesi in grado di difendere il bestiame. “All’inizio anche noi abbiamo subito attacchi – spiega Elena Gabbi, che ha un’azienda agricola nel comune di Borgotaro (Pr) – poi ci siamo organizzati per prevenire. Anche le galline non si possono lasciare libere, altrimenti verrebbero uccise dalle volpi. Allo stesso modo è necessario riabituarsi alla presenza del lupo”.
Wwf e ambientalisti: “i lupi non sono pericolosi”
Prevenzione e informazione sono i due concetti chiave su cui si muovono associazioni ambientaliste e amanti dei lupi. Proprio nel parmense, per fare da contraltare all’allarmismo scoppiato dopo le continue razzie, è nata l’associazione di volontari “Io non ho paura del lupo”, con l’obiettivo di studiare la fauna selvatica e promuovere la coesistenza con l’uomo. “Qui in Val Taro non è stato fatto un lavoro di informazione, come in molte zone d’Italia – spiega Daniele Ecotti – Il lupo c’è, ma non è un pericolo e non crea tutto il danno che si dice. Bisogna solo sapere come comportarsi”.
Scomparsi per quasi un secolo a causa della presenza dell’uomo, che li ha cacciati e costretti ad abituarsi alla vita notturna, i lupi dagli anni Settanta sono una specie protetta e gradualmente hanno cominciato a riappropriarsi dei luoghi che avevano lasciato, controllando aree di circa 150 chilometri quadrati per branco. A favorirne il ritorno, sono stati anche il ripopolamento di ungulati a scopo venatorio e il progressivo abbandono delle zone montane e rurali da parte dell’uomo. “La possibilità di essere aggrediti da un lupo è praticamente pari a zero, gli ultimi episodi documentati risalgono addirittura a un secolo e mezzo fa – chiarisce Rolando Cervi, presidente del Wwf Parma – Non sono una minaccia concreta”. Ci sono zone in Italia, come l’Abruzzo, in cui il lupo non è mai sparito e gli uomini si sono abituati alla sua presenza. Anche nei parchi naturali le cose vanno meglio: a volte gli animali sconfinano e creano qualche disagio agli allevatori, ma l’informazione è sempre stata capillare, i risarcimenti per le predazioni arrivano puntuali e si danno contributi per la prevenzione, a volte perfino regalando cuccioli di pastore maremmano con il necessario per il loro sostentamento.
In queste aree protette il lupo è tutelato e monitorato, gli animali feriti vengono rimessi in libertà e osservati tramite radiocollare, e inoltre viene anche salvaguardata la specie dalla minaccia degli ibridi, che però secondo gli esperti, così come i lupi, non sono pericolosi per l’uomo. “Gli ibridi ci sono, ma studi hanno dimostrato che se crescono in un branco di lupi si comportano come loro, non costituiscono un pericolo per l’uomo. Il danno è soprattutto per la razza, che rischia di perdere la sua purezza incrociandosi con altri canidi” aggiunge Luigi Molinari, zoologo del Wolf Appennine Center, un team di lavoro del parco nazionale dell’Appennino Tosco-emiliano che si occupa della tutela e dell’osservazione dei branchi e che con il progetto Life Mirco Lupo ha come obiettivo proprio la conservazione della specie, il controllo degli ibridi e la riduzione dell’impatto del randagismo.
Il piano di abbattimenti
Eppure nonostante le rassicurazioni, le tensioni sociali intorno alla fobia del lupo continuano a esplodere a ogni nuova razzia, tanto che per calmare gli animi il ministero all’Ambiente ha allo studio un piano di gestione che dovrebbe permettere di abbattere una quota degli esemplari esistenti che si aggira tra il 3 e il 5 per cento, oltre agli ibridi e ai cani vaganti. Una proposta contro cui si sono schierate la Lega antivivisezione e il Wwf, che ha presentato quasi 200mila firme, sostenendo che gli abbattimenti non risolverebbero il problema delle predazioni, e anzi potrebbero provocare l’effetto contrario, destabilizzando i branchi con il rischio di reazioni anomale. “I conflitti con l’uomo – sostiene il Wwf – possono essere ridotti con misure concrete di prevenzione e campagne di informazione e sensibilizzazione”.