Un gruppo di donne rumorose e colorate ha attraversato la città di Latina per ricordare che la violenza sulle donne è sempre in agguato. Che non è affatto un problema risolto. E che il legislatore non deve sottovalutare i comportamenti a rischio degli uomini che mettono in serio pericolo le donne a loro legate. A organizzare la manifestazione il centro Donna Lilith per il quarantennale della sentenza del processo del Circeo. Perché la memoria di chi c’era e la conoscenza di chi allora non era neanche nata, non si offuschi su un accadimento che la nostra città fatica a dimenticare.
E così “Colmare di colore – Donne in performance per le strade”, si è snodato tra giardini e vie fino ad arrivare in piazza Bruno Buozzi , sede del tribunale, dove appunto 40 anni fa in quelle aule, Ghira, Izzo e Guido, vennero condannati all’ergastolo per lo stupro nei confronti di Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, che venne ritrovata morta all’interno del bagagliaio della macchina, dove era stata nascosta insieme alla sua amica, che si salvò.
I “segni” consistono in piccole tessere inserite nei marciapiedi sbrecciati e sconnessi e accompagnati con queste parole: “Colmare di colore – suturare le ferite, non rompere ma riparare”. Vale a dire… questo è un gesto simbolico contro la violenza di genere, che unisce idealmente e materialmente la città.
E anche per ricordare che in quella estate del 1976 le donne di Latina presidiarono con i loro corpi, slogans e cartelli il tribunale, per testimoniare solidarietà a Rosaria e Donatella e per denunciare la cultura patriarcale e sessista alla base della violenza subita dalle due ragazze. Per alcune donne fu il proseguimento di un percorso già intrapreso, per molte altre l’inizio di un processo di presa di coscienza che portò alla nascita del Collettivo femminista e 10 anni dopo, il 4 febbraio del 1986, alla nascita del Centro Donna Lilith.
Ecco il tribunale. Le donne colorate e rumorose fanno silenzio. Si siedono sulle scalinate del Palazzo di giustizia. E inizia il film, che tanti quando lo hanno visto, hanno finalmente preso coscienza di cosa voglia dire stupro e il giudizio successivo, per certi versi peggiore del primo.
Il film è in bianco e nero e appaiono subito le donne urlanti: madri e fidanzate che accusano la ragazza. “Questo è terribile”, mi dice all’orecchio la regista. E quindi l’intervista alla Lagostena Bassi, difensore di parte civile, che dice al giudice di voler rinunciare al risarcimento. Scorrono le immagini di avvocati, giudici, imputati e presenti. Quello che viene fuori da quest’aula è che una donna di buoni costumi non può mai essere violentata. Si stupra chi se le va cercare o chi è consenziente, arringano gli avvocati che difendono gli imputati. Ma la voce vibrante della Lagostena Bassi si alza e per la prima volta in un aula di tribunale sottolinea che lei non è il difensore della parte lesa, ma l’accusatore degli imputati.
E’ l’inizio di una presa di coscienza diversa, anche se il cammino è tortuoso e molto impegnativo. Ancora oggi, mettendo in evidenza la cultura giuridica allora imperante che vedeva la donna passare dal ruolo di vittima a quello di inquisita. Da allora nulla è rimasto uguale: la forza di denuncia del documentario e l’esperienza della partecipazione ai due processi hanno portato a cambiamenti sia culturali che legislativi, ma ancora troppe donne sono vittime di femminicidio.