Quest’anno viviamo la drammatica ricorrenza della strage alla stazione di Bologna in un clima nel quale ormai sembriamo tutti assuefatti al linguaggio della violenza e al prevalere dello scontro di civiltà. Uno scontro, beninteso, che con l’Islam vede solo una faccia della tensione alla quale siamo quotidianamente esposti, in un sistema economico che spesso fa della tensione e della paura latenti una delle sue facce più note. Paura del prossimo, paura di perdere il lavoro, paura di perdere occasioni, paura del futuro. Siamo sempre più assuefatti alla paura, un sentimento che pare dover quotidianamente vivere dentro di noi.
La situazione mediterranea ed europea, del resto, non può che rinfocolare il clima di incertezze che pesa su tutti noi come un macigno, un clima insostenibile che fino a qualche anno fa nemmeno potevamo immaginare, cullati come eravamo sulla certezza che l’ordine consolidato nel corso dei decenni da quel “buon vicinato” costituito dai vari Gheddafi, Ben Ali e Mubarak fosse destinato all’eternità, cullato da qualche buon rapporto commerciale o trattativa energetica.
Non è stato così, per una pur riconoscibile volontà di avvicinamento al modello occidentale dei popoli del Maghreb, ma anche per una innegabile e a tratti sconsiderata operazione politica prima e militare poi, che di quelle rivolte ha voluto fare un casus belli utile a ridisegnare gli equilibri geopolitici delle nostre coste, levando lo scettro del potere a vetusti provveditori e consegnandolo a nuovi, fragili e prezzolati gruppi di potere di provenienza incerta.
Un passaggio di consegne che per troppo tempo ha visto la sinistra di casa nostra plaudire e apprezzare questo violento e pericoloso transito, senza che nessuno, o pochi, avessero il coraggio di denunciare quanto la situazione e i nostri rapporti con l’islam rischiassero di deteriorarsi proprio per il radicalismo già insito nei gruppi che, a cuor leggero, venivano supportati dalle potenze occidentali. Abbiamo visto la Libia disfarsi e radicalizzarsi a due passi da casa, sommergendoci di profughi e disperati. Abbiamo visto la Siria venire fagocitata dall’Isis insieme all’Iraq, il Libano venir coinvolto in un conflitto su larga scala insieme al popolo curdo e alla mai pienamente europeizzata Turchia.
Vediamo moltissimi giovani venire attirati dal messaggio di morte del radicalismo islamico, visto ormai come la mera alternativa ad una vita europea o mediorientale fatta di privazioni o persecuzioni. Vediamo i giovani delle banlieue parigine o belghe in rivolta, spesso li sentiamo alieni alle nostre democrazie proprio perché in realtà capiamo come essi non ne siano mai stati conquistati, e non siano mai stati coinvolti nel processo di integrazione civile che ogni cittadino, per essere realmente conquistato ai valori fondanti del sistema democratico, dovrebbe provare sulla propria pelle.
Più che a un silenzio colpevole sulle responsabilità geopolitiche, alla mancanza di rivendicazione sociale da parte di un centrosinistra spesso dimentico del proprio ruolo, ci piace oggi pensare a un Islam capace di venire ospitato, con le sue comunità, nel processo unitario del continente europeo, e che per esserlo deve poter venire coinvolto in maniera migliore. Pensiamo a una immigrazione più razionale, il cui peso non sia lasciato in gestione solo ai paesi di frontiera, ma che debba essere distribuito a tutti. Pensiamo a un culto islamico che accetti le basi della convivenza civile e che possa aggiungersi al patrimonio culturale di cui il nostro Paese può orgogliosamente rivendicare l’ospitalità, in quella fratellanza mediterranea che mai come oggi può servire per cacciare lontani i demoni del radicalismo, della violenza e del terrorismo, favorendo anche la rinascita di contenitori statali laici, democratici e capaci di distribuire dignità e benessere al proprio popolo, evitando di incentivare traversate mortali o un intollerabile spostamento di popolazioni da continente a continente.
Un passo lo deve fare anche l’Islam, e oggi mi piace sottolineare quanto le comunità islamiche italiane stanno facendo in occasione dell’anniversario della strage di Bologna. Alla richiesta di verità nei confronti di un potere sordo, al quale basta ripetere ogni anno un mantra ormai ben consolidato, vi è la risposta dei cittadini e dei lavoratori, uniti non a chiedere una verità, ma a pretenderla, ogni anno instancabilmente e con coraggio.
Mi piace vedere quanto la comunità islamica sia stata recettiva nel comprendere il valore di questa data specialmente in un episodio, quello della strage di Bologna, che ci tocca da vicino in cui ancora troppe domande restano senza risposta, a fronte di una ricerca della verità che sembra ancora insufficiente. Questo è l’Islam che all’Italia serve, un Islam pro-attivo, pienamente coinvolto nei processi di cittadinanza, che possa aiutare l’Italia a crescere civilmente, a portare avanti delle battaglie comuni, ispirate a valori condivisi. Non ci deve essere spazio in Italia per il radicalismo o per abboccamenti a esso, radicalismo verso il quale è doveroso chiedere la massima severità, in primis per garantire a tutti la sicurezza, in secondo luogo per tutelare gli appartenenti a un credo che non merita di essere sporcato con la follia dello jihadismo.
Oggi da Bologna non possiamo che rilanciare quel “contro tutti i terrorismi” che vediamo sullo striscione esposto dalla comunità islamica. Contro i terrorismi, per un’alleanza nella civiltà e per l’integrazione di tutti coloro che nell’Italia e nei suoi valori vedono una ricchezza da ribadire giorno per giorno.