Djokovic, eliminato alle Olimpiadi, piange. Non lo ha fatto a Wimbledon, non nelle altre rare sconfitte. Eppure il tennis olimpico è snobbato da molti: non ha premi, ha anche meno pubblico del nuoto o dell’atletica. Ma le olimpiadi sono un sogno che si ripete solo ogni quattro anni. Sono sicuro che ci riproverà nel 2020.
Si interrompevano le guerre nell’antica Grecia, oggi si cerca di scatenarle con il terrorismo, ricordiamo Monaco nel ’72. Eppure anche noi ci commuoviamo a vedere Garozzo che strapazza il numero 1 al mondo, o Campriani che ci parla dei pensieri buoni in cui rifugiarsi per tenere a bada la tensione enorme dell’ultimo colpo di carabina, sempre danneggiato dall’adrenalina.
Ci commuovono i giovanissimi come Basile e la ginnasta dell’Uzbekistan di 41 anni all’ultima olimpiade, attorniata da bimbette schiave di allenamenti feroci. Ci commuovono gli inni e il podio. Ci commuove anche la ragazza kosovara che vince il judo, anche se batte l’italiana: un paese di cui la Serbia rifiuta l’esistenza, al punto da proibire ai propri atleti di salire sul podio con “uno di quelli”. Quanta stupida, arrogante miopia.
Lo sappiamo, fuori dallo stadio ci sono la miseria delle favelas, la violenza, gli imbrogli. Possiamo e dobbiamo impegnarci a fondo, lottare contro tutto ciò, ma per 15 giorni lasciateci ANCHE questa speranza: che vinca il migliore, che la lotta sia leale, che il ‘dio denaro’ venga messo da lato dagli atleti mentre corrono, nuotano, combattono. Bisognerebbe anche mettere un tetto alle spese: Helsinky è stata forse l’ultima olimpiade senza effetti speciali, e non per questo meno bella.
Lo sport è rimasta l’ultima narrazione epica, e l’epica ha profonde radici nel nostro inconscio, narra storie eterne. Chi lo imbratta, imbratta qualcosa che ha del sacro, nelle qualità dell’atleta: coraggio, lealtà, tenacia, estro. Per essere eroi, just for one day.