A distanza di un anno dalla lettura del dispositivo che confermava la pena massima inflitta in primo grado, i giudici non hanno ancora depositato le motivazioni della decisione presa in secondo grado. E tra due mesi sarà trascorso il limite massimo di custodia cautelare per chi non è stato condannato in via definitiva
Potrebbe lasciare il carcere il prossimo 15 ottobre Sabrina Misseri, la ragazza condannata in appello all’ergastolo perché ritenuta l’autrice, insieme alla madre Cosima Serrano, della morte della cugina 15enne Sarah Scazzi, strangolata a e gettata in un pozzo il 26 agosto 2010 nelle campagne di Avetrana. A distanza di un anno dalla lettura del dispositivo che confermava la pena massima inflitta in primo grado, i giudici della corte d’Appello di Taranto non hanno infatti ancora depositato le motivazioni della sentenza, impedendo così ai difensori di Sabrina e Cosima di proporre appello in Cassazione. Oltre a questo ciò che conta è che il 15 ottobre saranno trascorsi sei anni dall’arresto di Sabrina, limite massimo per la custodia cautelare stabilita dalla Costituzione in assenza di una condanna definitiva.
Come spiegato da La Gazzetta del Mezzogiorno, però, dovrà essere il giudice a stabilire le sorti di Sabrina: è possibile infatti che ai sei anni già trascorsi debba essere aggiunto un altro anno per via dell’interruzione dei termini di custodia cautelare in occasione della sentenza di primo grado. Anche al termine del processo dinanzi alla Corte d’assise di Taranto infatti, trascorsero ben 12 mesi tra la lettura del dispositivo in aula che condannava all’ergastolo le due imputate e il deposito delle motivazioni.
Un nodo che ormai dovrà presto essere risolto. Il difensore di Sabrina Misseri, l’avvocato Franco Coppi, già nei giorni scorsi attraverso le colonne de La Stampa aveva lanciato l’allarme sulla vicenda: “È passato un anno e non abbiamo ancora notizia delle motivazioni della sentenza di appello, siamo di fronte a una grave lesione dei diritti della difesa” aveva dichiarato l’avvocato romano, aggiungendo che si trattava di “un fatto gravissimo” dato che “dopo cinquant’anni di professione ne ho viste di tutti i colori, ma non mi era mai capitato di dover aspettare 11 mesi la motivazione di primo grado e adesso avere passato l’anno senza conoscere le motivazioni del secondo grado. Fatti di questo genere – aveva denunciato Coppi lanciando un appello al ministro della giustizia Andrea Orlando – meritano attenzione e chiarimenti e, dato e non concesso che il sovraccarico di lavoro abbia causato questo ritardo, bisogna fare in modo che questo non avvenga più perché non è accettabile sul piano della civiltà del diritto che un imputato assistito dalla presunzione di non colpevolezza debba aspettare tutto questo tempo per sapere perché è stato condannato”.
Prima di lui, però, era stata Concetta Serrano, mamma di Sarah e sorella della coimputata Cosima, a lanciare attraverso le colonne de La Gazzetta del Mezzogiorno un appello ai magistrati: “Sto vivendo da quasi sei anni un momento terribile che sembra non avere mai fine. Ho vissuto – aveva spiegato Concetta – con intensa partecipazione, ma altrettanta angoscia, i primi due processi. Sto vivendo con angoscia l’attesa di vedere finalmente la fine di questo percorso giudiziario. Un percorso che, al momento (e salvo conferma definitiva), ha dato un volto ed un nome agli assassini di mia figlia. E questo grazie al senso di responsabilità, impegno e professionalità di tutti coloro che hanno portato avanti un lavoro faticoso e meticoloso, mettendoci l’anima e la loro sensibilità, nel rispetto di una persona che non c’è più e che ancora attende giustizia definitiva”. Parole che insomma chiedevano urgenza ai magistrati proprio per evitare che le presunte assassine di Sarah possano lasciare la cella.
Sulla vicenda, qualche ora fa, è intervenuto anche Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere penali: “Che l’imputato attenda libero l’esito del suo processo– ha evidenziato Migliucci – dovrebbe essere normale, risultando chiaro dalle norme in materia la eccezionalità della custodia cautelare in carcere. Che a distanza di sei anni dall’inizio della carcerazione, in assenza di una decisione definitiva, le imputate tornino il libertà dovrebbe essere considerato un fatto del tutto normale, frutto della applicazione di una incontestabile garanzia costituzionale. Il ritardo dei giudici – ha aggiunto il presidente dell’Ucp – sarà poi valutato nelle sedi competenti, ma a noi interessa invece sottolineare ancora una volta ciò che episodi come questo dimostrano in maniera evidente che i ritardi e i tempi irragionevoli dei processi non dipendono certo dalle troppe garanzie (che in verità, quando si tratta della libertà e della vita di una persona, non sono mai troppe), ma dalla stessa organizzazione degli uffici e dall’efficienza della giurisdizione”. Infine per Migliucci è necessario riflettere andando oltre il caso specifico: “il termine di 90 giorni previsto per la redazione delle sentenze più complesse – ha concluso il presidente – appare più che congruo, ma è del tutto sprovvisto di sanzione, e appare davvero ingiusto che il suo mancato rispetto possa ritorcersi contro un imputato detenuto in attesa di giudizio”.