A gennaio il premier ha definito "assolutamente alla nostra portata" l'obiettivo di crescere dell'1,6%. Poi rallentamento internazionale e Brexit hanno innescato una parabola discendente. In aprile il governo ha inserito nel Def una previsione del +1,2%, ma per l'Fmi un +1% è già troppo ottimistico. Dopo il referendum britannico Confindustria e Prometeia hanno però avvertito che non supereremo il +0,8%. Stima confermata alla luce del dato sul secondo trimestre
Le emergenze degli ultimi mesi, dal terrorismo alla Brexit passando per le turbolenze sul sistema bancario, hanno fatto passare in secondo piano le preoccupazioni per l’andamento del pil. Il premier Matteo Renzi ha smesso di parlarne, preferendo concentrarsi sul referendum, la necessità di un rafforzamento della Ue, la situazione delle banche e il bail in. Eppure, come messo in evidenza mercoledì da un editoriale del Financial Times, il vero problema dell’Italia è “la persistente mancanza di crescita economica“. Ma ora, a pochi giorni da Ferragosto, ignorare l’elefante nella stanza diventa impossibile. Perché la stima preliminare dell’Istat, secondo cui nel secondo trimestre il prodotto interno lordo è rimasto al palo, rende irraggiungibile l’obiettivo di un +1,2% per l’intero 2016 messo nero su bianco dal governo nel Documento di economia e finanza dello scorso aprile. Per non parlare di quel +1,6% che Renzi, intervenendo a Porta a Porta il 21 gennaio, aveva definito un traguardo “assolutamente alla nostra portata”, dopo il +0,6% (+0,7% su dati grezzi) del 2015.
In otto mesi, complice un contesto internazionale sempre più debole e l’inflazione ai minimi termini nell’Eurozona, le previsioni sul pil 2016 in arrivo dai centri di ricerca italiani e dagli organismi internazionali hanno seguito una parabola discendente senza freni. Ora, stando ai principali think tank alle agenzie di rating, l’asticella oscilla tra +0,8 e +0,9 per cento, circa la metà di quello che Palazzo Chigi sperava a inizio anno. Ai primi febbraio le prospettive apparivano ancora rosee: la Commissione Ue, pur rivedendo le stime al ribasso, dava credito a un +1,4%, scrivendo che l’economia italiano avrebbe “guadagnato slancio col rafforzarsi della domanda interna” e la caduta dei prezzi del petrolio, che avrebbero compensato il rallentamento dell’export”. Tempo quindici giorni e, il 18 febbraio, l’Ocse frenava, limando le previsioni a un +1%, 0,4 punti in meno rispetto all’outlook di novembre.
L’8 aprile il governo ha preso atto solo in parte della frenata, inserendo nel Def – il documento su cui si incardina la politica economica – un target dell’1,2% contro la precedente stima di +1,6%. Peccato che quattro giorni dopo il Fondo monetario internazionale, allineandosi all’Ocse, abbia sancito che la Penisola poteva contare al massimo su un +1%. Un mese dopo, 3 maggio, è arrivato anche il ritocco al ribasso di Bruxelles: da +1,4 a +1,1 per cento. Previsione confermata il 17 maggio dall’Istat nel rapporto sulle prospettive per l’economia italiana nel 2016.
Salto in avanti al 7 giugno: gli analisti dell’istituto di statistica, nella loro nota mensile, hanno preso atto che “l’indicatore composito anticipatore dell’economia ha segnato un ulteriore calo, suggerendo il rallentamento nel ritmo di crescita dell’attività economica nel breve termine” perché “ai risultati positivi registrati nel primo trimestre si affiancano alcuni segnali di debolezza nelle aspettative delle imprese e negli ordinativi del settore manifatturiero”.
Il 23 giugno gli elettori del Regno Unito hanno votato in maggioranza a favore della Brexit. Il giorno dopo le borse europee sono crollate (per Milano si è tratatto del tonfo peggiore della storia) mentre si concretizzavano i timori sul possibile impatto dell’uscita di Londra sulle altre economie Ue. Una settimana dopo il Centro studi di Confindustria ha messo nero su bianco che le conseguenze per l’Italia saranno pesanti: la previsione di crescita per il 2016 è stata rivista da +1,4 a +0,8%, mentre quella per il 2017 è stata portata addirittura a +0,6%, meno della metà del precedente 1,3%. Il 6 luglio il centro studi Prometeia ha confermato: per il 2016 ci si dovrà accontentare di un +0,8 per cento. Il 12 luglio anche l’Fmi ha tagliato le stime, concedendo però a Roma di sperare in un +0,9 per cento.
Il 15 luglio Bankitalia non ha potuto che prendere atto che non si andrà oltre l’1%. Il 26 dall’Ufficio parlamentare di bilancio è arrivata la pietra tombale: “Una crescita 2016 dell’1,2%, come ipotizzato nel Def, appare non raggiungibile”, e scontando un ultimo trimestre in espansione contenuta, il tasso di crescita 2016 si collocherebbe “poco sotto l’1%”. Il 27 luglio, mentre anche Fitch tagliava la stima per il 2016 riducendola a +0,8%, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha ammesso che il secondo trimestre si è chiuso con una crescita congiunturale “dello 0,1/0,2%”, con un rallentamento legato alla “debolezza delle economie emergenti e l’incertezza per l’esito del referendum sulla Brexit“. Il dato diffuso venerdì dall’Istat, come si è visto, è ben peggiore.
Gli effetti sull’andamento dell’intero anno saranno esaminati “in dettaglio nella Nota di aggiornamento del Def” attesa per settembre, aveva detto Padoan. E le previsioni saranno giocoforza tagliate. Paolo Mameli, senior economist della direzione centrale studi e ricerche di Intesa Sanpaolo, ha già fatto sapere che alla luce della battuta d’arresto anche se il pil nella seconda parte dell’anno tornasse a crescere “di 0,1-0,2%” la crescita media del 2016 si fermerebbe “sotto l’1%, a 0,8%, comunque in miglioramento rispetto allo 0,6% dello scorso anno”. Un miglioramento potrebbe far capolino nel 2017, “ma difficilmente anche l’anno prossimo la crescita si collocherà sopra l’1%”.