Nel cuore andino dell’Ecuador, più o meno a metà strada fra la capitale Quito e Cuenca, e a metà strada tra il confine peruviano e l’oceano Pacifico, si trova Riobamba, cittadina dal nome romanzesco che funge da centro effettivo del ferrocarril dell’Ecuador. Ovvero delle ferrovie. Il paese ospita alcune delle linee ferroviarie più antiche di tutta l’America Latina.
Da qui parte ad esempio il tren del hielo, quello di cui vi voglio parlare in questo articolo. Questo treno parte alle 8 del mattino dalla estaciòn del ferrocarril, che si trova in pieno centro. Percorre una linea un poco maldestra ma originale, e arriva alla stazione di Urbina, a 3610 metri di altitudine. Si chiama così perché salendo fa il solletico alla valle sottostante il mitico Chimborazo, la cima più alta dell’Ecuador, col ghiaccio sul pennacchio, e ne mostra l’ampia vegetazione, i larghi sprazzi di orizzonte, gli sperduti villaggi, i contadini, il freddo.
Per arrivare lassù però, e cioè prima che la vegetazione prenda possesso del panorama, il treno attraversa l’ecatombe della periferia della città da cui esce, in una sorta di rettilineo chilometrico che ferisce le innumerevoli case, che a volte non si possono neppure dire tali, accatastate nella provvisorietà, nel poco, nel disordine. Almeno due motociclette della polizia (stradale?) corrono parallelamente al convoglio, all’andata e al ritorno, sollevando un vespaio polveroso e precedendolo di qualche metro in modo da bloccare il traffico delle perpendicolari.
Quasi una scorta armata che funge da passaggio a livello in tempo reale. Soltanto al termine di tutto questo, e dei calcinacci, e dei cani randagi che scansano il treno all’ultimo, e delle famiglie raccolte sui tetti di case a un piano a veder passare una carcassa sgangherata, il panorama si fa verde. Si attraversano di tanto in tanto villaggi che non sai se siano finiti, se stiano cominciando, se sia tutto lì o manca una frase, e però vedi bambini che salutano il convoglio con il sorriso spalancato, ragazzi sopra moto secolari che fanno a gara su chi è più scassato fra il loro veicolo e il nostro, campetti da basket appoggiati alla cartapesta di un palco con dietro il nulla.
Si arriva a Urbina che pioviggina, “pioggia sottile” da queste parti si dice garùa. Si prende un caffè nel bar della stazione, fatta di un binario raddoppiato per venti metri, un asino, e un marciapiede umido. Si fa qualche passo e si scherza con una pecora annoiata, si fotografa la pioggia sui monti, si fa amicizia con l’asino fermo accanto al binario, e si pensa, fotografandola, a dove arriverà quella rotaia conficcata laggiù. Sai che se lo andassi a chiedere, probabilmente qualcuno ti risponderebbe. Per cui, per il bene della poesia, che funziona grazie al meccanismo dell’occhio che non vede cuore che non duole, meglio lasciar perdere. Nel negozio/museo del ferrocarril un contadino vende coni gelato fatti col ghiaccio del Chimborazo.
E’ molto buono, e non lo dico soltanto io ma si nota anche dagli apprezzamenti delle persone che lo stanno gustando. Poi garùa e vento si fanno più insistenti ed è il momento di graziare la fotocamera imperlata di goccioline rifugiandosi nuovamente al bar. Ma com’è Urbina? Urbina è una cittadina… no, è un paese… nemmeno… è un’entità, un grumo di tetti impagliati e strada sterrata adagiati in mezzo ad un altipiano, probabilmente più piccola della sua stessa stazione. Un insieme di sensazioni e sparse case nell’altitudine.
Passano circa quattro ore dalla partenza al rientro a Riobamba, e questo è il momento di distinguere i fatti dalle sensazioni. Perché se di Urbina, della sua stazione e della vita che le popolano rimane di fatto poco, dentro ti sembra d’avere aggiunto invece molto. Come se un passaggio di pochi chilometri all’interno di un viaggio continentale spiegasse alcuni dei cardini utili all’intero percorso. Qualcosa difficile da spiegare, eppure viaggiando e vivendo succede proprio così, a volte. Capitano giorni, o nottate, che rendono più veri tutti gli altri.
Oppure più sensati. O più leggibili. Sì, perché l’atmosfera lassù è aggrappata a un filo. Poco ci manca che il tempo si fermi del tutto. E ti accorgi che forse è difficile dire “bello” di qualcosa che non sai. Di un discorso fatto in una lingua che non conosci. Eppure senti che è così. Che non si traduce il mondo per farcelo piacere. Che non deve essere a nostra immagine e somiglianza una storia per capire che è bella.