Dopo essersela presa con poeti, musicisti e registi, nella prima metà del 2016 le autorità iraniane hanno individuato un nuovo “nemico interno”: le attiviste per i diritti delle donne. La loro colpa: rivendicare uguaglianza di genere e maggiore partecipazione ai processi decisionali. In una prima parte dell’anno in cui l’unica buona notizia in tema di diritti delle donne è stata la scarcerazione di Atena Farghadani, almeno 12 attiviste sono state convocate dalle guardie rivoluzionarie per lunghi, estenuanti interrogatori senza avvocato nel corso dei quali sono state reiterate offese sessiste e minacce d’arresto per reati contro la sicurezza nazionale, come lo spionaggio e la collusione con gruppi operanti all’estero con l’obiettivo di rovesciare la Repubblica islamica.
A essere prese di mira sono state soprattutto due iniziative: il portale “Scuola femminista”, che pubblica rapporti e commenti sulla teoria e sulla prassi femminista e sulla situazione dei diritti delle donne in Iran e nel mondo, e la campagna per cambiare il volto maschile del parlamento, lanciata alla vigilia delle elezioni del febbraio 2016 allo scopo di incrementare la presenza delle donne nell’organo legislativo. Le attiviste di entrambe le iniziative hanno subito pressioni per sospendere le loro attività o sono state costrette all’autocensura. Il sito “Scuola femminista” non è più aggiornato da febbraio. Il 26 luglio ha annunciato la chiusura la nota rivista Zanan-e Emrooz (Donne oggi), ripetutamente sospesa in passato.
Nel suo comunicato finale, la Campagna per cambiare il volto maschile del parlamento ha spiegato come aver ottenuto l’aumento di cinque volte del numero delle candidate, aver rivendicato pubblicamente l’uguaglianza di genere e aver fatto i nomi dei candidati responsabili di dichiarazioni sessiste abbiano attirato l’attenzione degli organi di sicurezza e dato luogo a convocazioni, minacce, interrogatori prolungati e anche all’apertura di una nuova inchiesta per reati contro la sicurezza nazionale.
Il fatto più eclatante è stato l’arresto arbitrario, avvenuto il 6 giugno, della docente irano-canadese di antropologia Homa Hoodfar, nota da decenni per i suoi lavori accademici sulle questioni femminili. Detenuta nel carcere di Evin a Teheran, ha potuto incontrare il suo avvocato solo una volta e per un breve colloquio.
Homa Hoodfar collaborava con “Donne che vivono sotto le leggi islamiche”, una rete femminista internazionale che lotta per l’uguaglianza delle donne e i loro diritti nei sistemi normativi islamici. In un’intervista rilasciata il 24 giugno, il procuratore generale di Teheran ha affermato che contro Homa Hoodfar è in corso “un’inchiesta relativa alle sue attività nel campo del femminismo e della sicurezza nazionale”.
Alcuni giorni prima, organi di stampa legati alle guardie rivoluzionarie avevano descritto Homa Hoodfar come “l’agente iraniano di un network femminista” e la Campagna per cambiare il volto maschile del parlamento come “il più recente progetto” della docente universitaria. Inoltre, secondo questi articoli, la rete “Donne che vivono sotto le leggi islamiche” avrebbe lo scopo di “danneggiare l’ordine pubblico” e “promuovere cambiamenti socio-culturali il cui obiettivo finale è cambiare il governo senza l’uso della forza“.
Dunque, a Teheran si paragonano a reati contro la sicurezza nazionale campagne per i diritti delle donne e attività accademiche sulle donne nei sistemi normativi islamici. Dopo le leggi e la prassi quotidiana, a puntellare la discriminazione di Stato contro le donne in Iran arriva ora il sostegno della magistratura.