Presente Strauss, quello dei valzer, del Danubio Blu, del concerto di Capodanno a Vienna, lampadari giganti e abiti da pinguino? “La sua era musica leggera, ballabile, che si suonava dal vivo nelle sale da ballo. Ora, se devi pensare a una corrispondenza oggi, cosa ti viene in mente?”. David Guetta, il riempipista, il fenomeno delle feste, anche se i suoi concerti “dal vivo” danno materia ai battutisti di mezzo mondo. Strauss-Guetta: il paragone farebbe intervenire la buoncostume in qualsiasi sala sinfonica, sempre che il pubblico sappia che esista la musica dance. Eppure è una delle immagini intorno alle quali gira Beethoven e la ragazza coi capelli blu (Mondadori, 144 pagine, 18 euro), secondo libro di Matthieu Mantanus, direttore d’orchestra, pianista, già maestro della divulgazione della musica colta in tv: come conduttore di Rai5 in occasione delle opere in diretta (prima della Scala compresa) deve rispettare il dress code, ma sul podio (anche in tv, da Fazio) sale anche in jeans. Mantanus, 38 anni, svizzero-belga, maestri-miti come Giuseppe Sinopoli e Lorin Maazel, racconta Schubert, Haydn, Debussy, Stravinskji e la sua capacità è di avvicinarli a chi non conosce la musica dei grandi compositori. Per questo ha anche creato JeansMusic, progetto che permette di ribaltare la liturgia del concerto classico. Per questo porta in giro per l’Italia Intimacy, spettacolo musicale che fa incrociare musica e parole. Su questo si fonda Beethoven e la ragazza coi capelli blu, nel quale – per farla breve – una rock star scopre che la sua bassista dall’aspetto dark, le cuffie fisse alle orecchie e un ciuffo – appunto – di capelli blu è appassionata e soprattutto conosce le biografie dei più grandi della musica. Fa di più: li mette a petto del jazz di Bill Evans, del rock progressivo dei New Trolls, della dance di Guetta. “Non è che metto tutti sullo stesso piano artistico – precisa Mantanus a ilfattoquotidiano.it – Per me ci sono differenze e anche abissali. Però la ‘graduatoria’ non può dipendere dallo stile scelto dal musicista per esprimersi, ma deve tener conto del valore della sua espressione, sia intrinseco – cioè la fattura dell’opera – sia del suo contesto storico: cioè quanto porta quest’opera all’evoluzione dell’arte e del pensiero”. Ma il modo sbagliato con cui il pubblico percepisce la musica classica è colpa della politica – la gestione delle fondazioni liriche è uno dei centomila problemi -, ma anche dello stesso mondo della classica: è un problema di format della diffusione della classica, dice. “Se io suono Mozart in jeans non impedisco a un altro di suonarlo in frac. Semplicemente ci rivolgiamo a due pubblici diversi e insieme abbiamo toccato il doppio delle persone”.
Mantanus, confessi: lei è Anna, la protagonista del libro. Prende per mano Mark e gli fa abbattere tutte le sue barriere.
A volte l’ho pensato anch’io. Però in fondo c’è molto di me anche in Mark. Un Mark al contrario: io, musicista di formazione esclusivamente classica, che ho scoperto il rock grazie a un’amicizia. È spesso una persona – un artista, un’amicizia, un amore – a permetterci di superare i nostri pregiudizi e scoprire mondi nuovi.
Di sicuro quello che traspare da tutto il libro è che lei vuole rompere il luogo comune: non esiste separazione tra la musica pop, leggera o commerciale e la musica colta.
Beh, ci sono separazioni, ma non quelle che vediamo noi di solito. Ci sono infiniti modi di usare ritmo, armonie, strumenti, voci: coniugando queste variabili si può fare ogni tipo di musica, alcuna più interessante e innovativa, altra meno. Trovare però delle frontiere basandosi su questi criteri artistici e musicali è davvero arduo, ci sono mille sfumature impossibili da catalogare. Quando parliamo poi di “classica”, l’abuso di categorizzazione è evidente: la musica di Monteverdi è venduta come “classica”, così come quella di John Cage. Eppure non li accomuna nulla, se non il pubblico al quale la si propone e la sua modalità di diffusione. Ed è lì il malinteso di fondo che impedisce la reale diffusione della repertorio classico nella società: essere attribuito a una certa categoria socioculturale, escludendo le altre. Ma la musica in tutto ciò non c’entra nulla.
“Il malinteso che impedisce la diffusione della repertorio classico è essere attribuito a una categoria socioculturale, escludendo le altre”
E’ un’impressione o sta davvero cambiando qualcosa nella classica e nella lirica proprio grazie alla sua generazione? I giovani maestri acclamati come star, soprano iperattive su facebook o instagram.
Vero. Ma temo un cambiamento gattopardesco: un “cambiamo tutto per non cambiare nulla”. In effetti, quando si ragiona sulla cosiddetta classica, bisogna identificare tre elementi: innanzitutto la musica stessa, cioè le note scritte dal compositore che l’interprete deve “riportare in vita”. Poi il contesto nel quale questo avviene, quello che chiamerei il “format” per usare una terminologia televisiva: il concerto classico. E infine la promozione di questi concerti. Ecco, finora c’è stato un grande cambiamento nell’ultimo punto, nel marketing degli artisti e dei concerti. Ma questa evoluzione è inutile, se non controproducente, se non si fa evolvere il punto cruciale della modalità di diffusione della musica, il “format”. Paradossalmente abbiamo quasi rafforzato l’immagine elitaria della classica con il marketing. Per riuscire un reale allargamento di pubblico dobbiamo ora avere il coraggio di trovare formule in grado di toccare nuovi pubblici, e poi comunicarle.
Forse manca ancora qualche passetto per vedere i teatri un po’ più pieni di ragazzi. Non c’entrano anche i prezzi? All’Arena di Verona, d’estate, si incontrano generazioni diverse. Nei teatri lirici un po’ meno.
Non sono un grande sostenitore dei prezzi stracciati. Il rapporto è – ahimé – sempre quello dell’offerta e della domanda: meno domanda ci sarà, più bassi dovremo fissare i prezzi, e più svaluteremo il nostro lavoro. Invece dobbiamo lavorare per far crescere la domanda, creare il desiderio di assistere a concerti: i ragazzi non vanno gratis a vedere gli One Direction! Ma purtroppo non andrebbero a sentire la Sagra della Primavera a teatro anche se fossero pagati per farlo. È quello il problema che va affrontato, il prezzo è solo una conseguenza.
Pensa che in questo senso le istituzioni, la politica facciano abbastanza non solo per tutelare, ma per promuovere il patrimonio musicale italiano?
No. Perché vedono la musica come un “patrimonio da conservare” invece di una “ricchezza da distribuire”. È una esperienza espressiva, emotiva, artistica sempre contemporanea, e va considerata come tale. La musica va vissuta sulla propria pelle dal più gran numero di gente possibile: in una società ideale tutti dovrebbero sapere suonare di uno strumento o cantare in un coro. E il “patrimonio”, inteso come lascito del passato, deve servire ad interpretare il presente. Troppo spesso sento parlare di teatri lirici o auditorium un po’ come se fossero musei in cui si celebra il passato… Dovrebbero invece essere considerati luoghi di espressione della società contemporanea.
“Troppo spesso sento parlare di teatri lirici o auditorium un po’ come se fossero musei in cui si celebra il passato…”
Qual è il modo per far capire che un’opera lirica può essere divertente e un concerto sinfonico “nutriente”?
Renderli divertenti e nutrienti! Se nella lirica l’aspetto giocoso del teatro un po’ c’è, nella liturgia del concerto sinfonico invece sono elementi che non vengono mai considerati. Se vogliamo riuscire a comunicare questa concetto con la società, a noi tocca la sfida di essere (non sembrare) semplici, facendo cose difficili e profonde. Solo così convinceremo altre persone ad avvicinare e amare la nostra musica.
Lei ci prova con Intimacy, lo spettacolo che sta portando in tutta Italia.
Sì, Intimacy è uno spettacolo al quale tengo particolarmente perché è il risultato di anni di riflessioni e di dialettica artistica: una sintesi tra la musica e la parola – arti secolari – e il video, che invece è la forma di espressione più recente che ci sia. Insieme alla visual artist Sara Caliumi abbiamo sviluppato un nuovo concetto di video: non più soggetto, ma accompagnamento. Consente di usare la sua potenza per focalizzare l’attenzione dello spettatore, indirizzare il suo ascolto e aprire un canale privilegiato di comunicazione. Spero di riuscire a far girare il più possibile questo spettacolo, perché apre davvero delle prospettive completamente nuove nella trasmissione del repertorio classico. A ottobre saremo al Teatro Comunale di Carpi, all’inizio del 2017 al teatro Lyrick di Assisi: i direttori artistici più innovativi si stanno interessando a questo nuovo format, sopratutto quelli che hanno capito che la priorità numero uno è attrarre nuovo pubblico nei teatri e nelle sale da concerto.
Anche qui, però, è sufficiente il ruolo della scuola?
Certamente no. Nelle lezioni di musica vere e proprie, se e quando sono previste, è tutto lasciato a l’iniziativa dei singoli maestri: molti si danno un gran da fare, sono appassionati e partecipano a programmi extrascolastici di formazione musicale spesso interessantissimi e provano a coinvolgere i colleghi in progetti trasversali. Ma molti altri sono rinunciatari o non hanno neanche la formazione necessaria. Anche se la verità è che finché il repertorio classico si trascinerà quest’aura elitaria sarà molto difficile “agganciare” i ragazzi, sopratutto adolescenti, molto sensibili alle etichette.
Una volta Allevi disse che Beethoven non aveva il ritmo che invece ha Jovanotti. E’ d’accordo?
Quella boutade ha portato ad Allevi una notorietà paradossale, grazie al rumoroso disprezzo di tutto il mondo musicale classico. Consiglierei piuttosto di farsi su Allevi la stessa domanda rispetto all’Arena di Verona: perché lui attrae pubblico e il concerto classico meno? Posso lanciare una provocazione? A me il suo successo non “offende”, come declamava Uto Ughi. Al contrario: mi interessa, in quanto penso che faccia emergere un vasto pubblico trasversale che potrebbe anche essere il nostro.
Lei nel suo romanzo dedica anche un passaggio significativo al ruolo del direttore d’orchestra, ma dal punto di vista di chi ascolta, non dal lato tecnico degli addetti. Come può un direttore d’orchestra cambiare l’ascolto se uno spartito è sempre quello lì da decenni?
Non può non farlo: la musica deve essere ogni volta riportata in vita attraverso qualcuno che ci mette le proprie emozioni, la propria sensibilità e quella della sua epoca. Non potremmo mai percepire Beethoven come i suoi contemporanei, sarebbe impossibile: abbiamo due secoli di musica nelle orecchie che né lui né il suo pubblico avevano. Noi suoniamo e ascoltiamo Beethoven, ma conosciamo Wagner, Schönberg, Stravinsky, i Pink Floyd, Keith Jarrett, Stockhausen e i Muse. Questo influenza anche involontariamente la nostra percezione! E dunque la nostra interpretazione. Un “forte”, per intenderci, non vuol dire nulla di per sé. Pensate a quello che significava forte per Beethoven in un mondo ottocentesco in cui il rumore più forte era il passaggio di una carrozza per strada. Che significato ha oggi “forte” quando decolla un aereo, o entriamo in una discoteca? Ma è solo un esempio tra mille. La sensibilità contemporanea degli interpreti è l’elemento che permette ai grandi capolavori della musica di non invecchiare.
Perché ha scelto proprio questi autori tra i compositori? Per esempio, perché non c’è Bach, considerato il padre fondatore della musica per come la conosciamo?
Li ho scelti un po’ per dare un idea organica di evoluzione, un po’ per gusto personale. E se manca Bach, cioè se ho deciso di iniziare con Beethoven, è per la peculiarità della storia a partire dell’epoca romantica: l’inizio dell’espressione dell’Io nell’arte. Bach, Mozart, Haydn non dipingevano loro stessi attraverso la loro musica. A partire da Beethoven, dietro alla musica si nasconde, o si mostra, l’essere umano che l’ha composta. Questo la rende più facilmente comprensibile alla nostra società, e permette di raccontarla con più facilità in un libro.
E’ molto divertente quando lei mette alla pari nomi che sembrano piombare da pianeti diversi: New Trolls e Schumann, Beethoven e David Guetta. Qualcuno nel suo ambiente chiederebbe il suo arresto, lo sa?
Sì, me ne sono accorto. Molti in effetti giudicano, anche violentemente, prima ancora di aver capito. Peccato, un’occasione persa per riflettere seriamente. Detto questo, non è che metto tutti sullo stesso piano artistico, anzi. Per me ci sono differenze e anche abissali. Però la “graduatoria” non può dipendere dallo stile scelto dal musicista per esprimersi, ma deve tener conto del valore della sua espressione, sia intrinseco – cioè la fattura dell’opera – sia del suo contesto storico: cioè quanto porta quest’opera all’evoluzione dell’arte e del pensiero. E per esempio i New Trolls, come molto del rock progressivo degli anni Settanta, hanno un percorso artistico molto affascinante e innovativo.
E’ lo stesso concetto che – su un altro piano – lei esprime con la sua Jeans Symphony Orchestra. Basta frac!
Il frac è un simbolo. Parlavo prima del “format” del concerto classico: ebbene il frac ne fa parte integrante. È uno degli elementi che ne definisce l’eleganza un po’ desueta e abbastanza elitaria. Poi a me non dispiace di per sé e penso che piaccia a molti di quelli che vanno al concerto oggi. Ma se ho fondato la Jeans Symphony Orchestra è per aprire un altro canale, più informale, più “semplice” di suonare un repertorio classico e che potesse incuriosire una fetta di pubblico diversa da quella già convinta. E penso che abbiamo bisogno di sviluppare ancora molti altri modi di trasmettere la musica, in piena libertà. Ed è sbagliato il dibattito su chi abbia ragione o torto. Perché se io suono Mozart in jeans non impedisco a un altro di suonarlo in frac. Anzi! Semplicemente ci rivolgiamo a due pubblici diversi e insieme abbiamo toccato il doppio delle persone che se avessimo suonato o entrambi in frac o entrambi in jeans. E, a scanso di equivoci, quando dico frac o jeans, non intendo solo il vestito… ma il “format” scelto per diffondere il repertorio classico nella società.
In quale genere di musica oggi c’è “più classica”, secondo lei?
Beh, oggi ci sono compositori di formazione classica molto interessanti in grado di intrigare un vasto pubblico. Penso ad alcuni brani di Penderecki per esempio, come la Threnody per le vittime di Hiroshima. Potentissima. Nella musica per il cinema la classica è onnipresente: pensate a John Williams, per esempio. Le musiche di Star Wars, ovviamente, ma anche la colonna sonora di Harry Potter: sono capolavori. Anche nel rock, andate a sentirvi l’Exogenesis Symphony dei Muse… senza Rachmaninov e affini, questo brano non avrebbe mai visto la luce! La classica è ovunque: senza i 4-500 anni che ci hanno preceduti, nessuno scriverebbe quello che scrive. Che lo sappia o no. E più lo sa, migliore è la sua musica.