Qualche giorno fa, al mio risveglio, tre parole mi congelano il sangue e mi perforano il cervello “Aleppo, bombe, cloro”. Poco prima avevo detto a mio marito: “Robi, una di queste sere ci andiamo a mangiare una pizza? Così usciamo un po’ insieme, io te e Elena.” Sinceramente non so spiegarvi perché questa frase mi sia rimbombata in testa dopo aver letto la notizia di quegli ultimi bombardamenti, ma ho trattenuto le lacrime perché consapevole che piangere non avrebbe avuto senso.
Il problema non era certo la mia pizza in famiglia. Non aveva un nesso con qualunque assurdo senso di colpa (ipoteticamente e completamente inutile), ma ho percepito una grande consapevolezza piuttosto. La consapevolezza di quanto piccole libertà quotidiane che spesso diamo per scontate siano qualcosa di prezioso, un “privilegio” che non dovrebbe essere tale, una possibilità tra le tante da scegliere. Qualcosa che altri, nemmeno possono immaginare di proporre al loro stesso cervello. Insomma, ieri sera andiamo a mangiare questa benedetta pizza, mia figlia fa due giri alle giostre, altalena, qualche scivolo, e poi riprendiamo la macchina per tornare a casa.
Nel frattempo, vado su internet e leggo che Mambji, una delle roccaforti Isis, è stata liberata dalle Forze democratiche siriane con il contributo del Ypg, il battaglione curdo che conta ormai diecimila donne in mimetica e fucile sottobraccio. Le foto e i video delle donne di Mambji che bruciano il burka o che fumano sorridenti una sigaretta a volto scoperto, fanno in poche ore il giro del mondo. Ho sorriso. Ho pensato a quelle donne, ai loro figli probabilmente sconcertati da gesti che fino a poco prima avrebbero messo a rischio la vita e l’incolumità delle proprie mamme, ho pensato alle soldatesse curde, alla loro soddisfazione nell’abbracciare qualcuno che ancora incredulo piangeva rannicchiato su se stesso.
Ho pensato alla loro resistenza, alla loro scelta, a quella caparbietà e fierezza che quando è donna sembra acquisire un significato ancora più forte, soprattutto in un contesto come quello. Ho sorriso. Poi ho pensato che per tutto questo, per quei momenti di gioia incontenibile, 438 civili, di cui 205 uccisi dai bombardamenti della Coalizione internazionale a guida americana secondo l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), ci avevano rimesso la pelle solo nella fase finale.
Ho pensato che quella foto, che fino a poco prima mi aveva commosso, di una soldatessa che camminava tra la polvere e le macerie, con un bimbo in braccio e lo sguardo più solare della maggior parte della gente che incontro per strada nella mia vita di tutti i giorni, mi trasmetteva anche un senso di frustrazione enorme, di profonda ingiustizia. Nessuna donna, e nessun uomo, dovrebbe avere quella mimetica addosso e il fucile in spalla per resistere, liberare, sopravvivere.
Penso che ci siamo abituati. Troppo. E che se la foto di una donna siriana che fuma una sigaretta diventa un manifesto di libertà, e noi stessi lo esaltiamo a dismisura, vuol dire che la strada per la concezione stessa della libertà e della pace è ancora davvero troppo lunga. Penso che quel manifesto non mi basta, perché stamattina mi sono già chiesta come sia stato il loro risveglio oggi, e quali pensieri quelle stesse donne abbiano avuto prima di addormentarsi ieri sera. Mi sono chiesta se siano riuscite a dormire, dopo quella sigaretta. Mi sono chiesta quali sono oggi le loro nuove paure. Perché non è certo tutto finito.
Penso alle parole di Gino Strada, ai suoi concetti sull’abolizione della guerra. Penso che non è utopia, ma l’unica strada ormai percorribile. “Possiamo chiamarla ‘utopia’, visto che non è mai accaduto prima. Tuttavia, il termine utopia non indica qualcosa di assurdo, ma piuttosto una possibilità non ancora esplorata e portata a compimento. Molti anni fa anche l’abolizione della schiavitù sembrava ‘utopica’. Nel XVII secolo, possedere degli schiavi era ritenuto normale, fisiologico.
Un movimento di massa, che negli anni, nei decenni e nei secoli ha raccolto il consenso di centinaia di migliaia di cittadini, ha cambiato la percezione della schiavitù: oggi l'idea di esseri umani incatenati e ridotti in schiavitù ci repelle. Quell’utopia è divenuta realtà. Un mondo senza guerra è un’altra utopia che non possiamo attendere oltre a vedere trasformata in realtà.
Dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Questo concetto deve penetrare in profondità nelle nostre coscienze, fino a che l’idea della guerra divenga un tabù e sia eliminata dalla storia dell’umanità.”
(tratto dal testo integrale del discorso pronunciato da Gino Strada, fondatore di Emergency, nel corso della cerimonia di consegna del Right Livelihood Award 2015, il “premio Nobel alternativo”)