Il Parlamento europeo ha chiesto a tutti gli Stati membri di realizzare centri di senologia multidisciplinare che seguono la paziente in tutto il percorso di malattia, dalla diagnosi alla terapia e follow up. Ma dal Lazio in giù non esistono ancora
Nella cura contro il cancro al seno, negli ultimi vent’anni, sono stati fatti passi da gigante. Ma è una lotta che continua e sul piano sanitario siamo ormai alla soglia di un’importante scadenza. Il 2016 infatti è l’anno entro cui il Parlamento europeo (con una risoluzione del 2006, “Cancro al seno nell’Unione europea allargata”) ha chiesto a tutti gli Stati membri di realizzare le cosiddette Breast unit, centri di senologia multidisciplinare che seguono la paziente in tutto il percorso di malattia, dalla diagnosi alla terapia e follow up, mettendo a disposizione un team di specialisti, come senologo, oncologo, radiologo, chirurgo plastico, anatomopatologo e psicologo. Considerando che il cancro al seno è la prima causa di morte nelle donne tra i 35 e 59 anni in Europa (oltre 80mila vittime l’anno) e che ogni anno se ne ammalano 275mila, l’obiettivo è aumentare la percentuale di sopravvivenza delle pazienti e ridurre le diseguaglianze in termini di aspettativa di vita tra i Paesi europei.
Il piano comunitario prevede una breast unit ogni 250mila abitanti. In Italia oggi se ne contano poco più di cento, ma il totale entro la fine dell’anno dovrebbe essere di 240. “Se arriviamo a 150 unità che funzionano bene potremmo già essere a buon punto. Ormai è tardi e dobbiamo sperare nel prossimo anno” commenta Luigi Cataliotti, chirurgo della mammella e presidente di Senonetwork, la onlus nata a Firenze nel 2012 che raggruppa tutti i centri di senologia italiani (eccetto due, quello dell’ospedale Gemelli di Roma e quello dell’Istituto nazionale tumori di Milano). “I centri devono rispettare i requisiti europei stilati da Eusoma (European society of breast cancer specialists, ndr) – sottolinea il medico -. Al momento sono 102 e stiamo valutando la richiesta di ingresso per altri 18”. Uno dei criteri fondamentali per fare parte del network è trattare almeno 150 nuovi casi di tumore alla mammella in un anno. Ma come troppo spesso capita in sanità c’è anche qui un’Italia a due marce. Cataliotti: “Le regioni del sud sono quelle meno preparate. In Molise, per esempio, manca ancora un centro senologico multidisciplinare. Non possiamo più accettare ritardi, tutte le donne del nostro Paese hanno diritto alle stesse cure”.
Il ministero della Salute nel giugno 2014 ha emanato le “linee di indirizzo sulle modalità organizzative e assistenziali della rete dei centri di senologia” approvate il 18 dicembre successivo dalla Conferenza Stato-Regioni. Ma non tutte le amministrazioni regionali hanno già recepito con proprie leggi l’istituzione dei centri di senologia. Fino adesso soltanto nove lo hanno fatto: Emilia-Romagna, Lazio, Piemonte, Toscana, Veneto, Liguria, Lombardia, Umbria, Valle d’Aosta. A cui va aggiunta la provincia autonoma di Bolzano.
Il conto alla rovescia è iniziato e c’è un’ennesima lacuna, non di poco conto: “Il ministero – dichiara Cataliotti – deve al più presto mettere a punto un sistema di certificazione e di monitoraggio di questi centri, non può essere la regione a garantire la qualità delle sue stesse strutture”. Quello che sta succedendo a Bari dall’inizio dell’estate sta gettando nel panico molte (ex) pazienti. Per salvare il polo oncologico Giovanni Paolo II, un Ircss sottosfruttato – sono attivi infatti 88 posti letto su 141 assegnati e aperte solo due delle sei sale operatorie – che da quattro anni chiude bilanci con perdite di almeno 10 milioni (11,5 precisamente nel 2015), il 22 giugno scorso la giunta regionale guidata da Emiliano ha deciso di smantellare la breast unit dell’ospedale San Paolo della Asl di Bari, che attira pazienti da tutta la Puglia, potenziando quello già attivo al polo oncologico.
La delibera prevede il trasferimento dal San Paolo di tre reparti (oltre all’oncologica medica dell’ospedale Di Venere): la chirurgia toracica, l’oncologia medica e l’anatomia patologica, che una breast unit deve assolutamente possedere. Con il rischio che un’equipe di specialisti che si è formata nel tempo secondo i criteri europei svanisca e il percorso di cura vada in tilt. L’alternativa, fortemente richiesta dal Comitato Iris (che raggruppa le donne operate al seno al San Paolo) al dirigente dell’Irccs Antonio Delvino, sarebbe traslocare tutto il team al polo oncologico. Delvino sta valutando l’ipotesi ma la decisione finale si saprà soltanto a fine agosto.
“Breast unit subito” è il messaggio di Europa donna, il movimento nazionale che rappresenta i diritti delle donne nella prevenzione e cura del tumore al seno. “In un centro di senologia multidisciplinare la paziente viene accompagnata in tutte le fasi della malattia, non deve più decidere da sola a quale specialista rivolgersi, quando e come, perdendo tempo prezioso e rischiando di fare scelte sbagliate” dichiara Rosanna D’Antona, presidente di Europa donna, a cui aderiscono una settantina di associazioni di volontariato. “Promuoviamo incontri nelle realtà locali con politici, medici e pazienti per far conoscere le breast unit e da gennaio organizziamo corsi di formazione per i volontari perché siano competenti e aggiornati, sappiano assistere al meglio le donne ammalate e interagire bene con il personale clinico. A settembre – ci anticipa la presidente – uscirà il primo Libro bianco sulla strategia del volontariato in questo settore”.
Nel nostro Paese ogni anno vengono diagnosticati 48mila nuovi casi di carcinomi alla mammella femminile. È la neoplasia più frequente nelle donne. Stima l’Aiom (associazione italiana di oncologia medica) che la sopravvivenza dopo cinque anni dalla diagnosi è comunque in costante aumento: dal 78 per cento per le donne ammalate dal 1990 al 1992, all’87 dal 2005 al 2007, grazie soprattutto alla diagnosi precoce (screening) e al miglioramento delle terapie. “C’è una forte tendenza a personalizzare sia il processo diagnostico che la successiva fase terapeutica cercando di essere sempre meno invasivi – spiega il dottor Cataliotti -. Una volta venivano asportati tutti i linfonodi ascellari per sapere quali erano quelli malati, adesso invece lo capiamo osservando il linfonodo sentinella, il primo a essere invaso da cellule tumorali. Tutto questo é possibile in un contesto multidisciplinare. Le nuove possibilità di caratterizzare la biologia di ogni singolo tumore consentono delle scelte terapeutiche più o meno aggressive rispetto a un recente passato. La chemioterapia con i farmaci biologici è per questo più mirata, colpisce le cellule malate senza danneggiare quelle sane. Inoltre, oggigiorno, il 70 per cento degli interventi è conservativo, significa cioè che non si asporta più la mammella”.