“Ricordo che alla sera si sentivano da lontano solo le loro voci che cantavano a squarciagola: ‘Con il sangue dei partigiani ci laverem le mani’. E così è stato”. Nazzarena Boaretto, il 15 ottobre 1944, aveva appena compiuto 16 anni, ma si ricorda nei dettagli gli anni della guerra, soprattutto quelli dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. I repubblichini, i nazisti dentro casa, i rastrellamenti, le deportazioni in Germania, le violenze, il coprifuoco, la caccia a chi aveva deciso che avrebbe combattuto per la Resistenza.
Ma lei, nata in provincia di Rovigo, si ricorda in particolare dell’eccidio dei martiri di Villamarzana. A cercare notizie sulla fucilazione di 43 partigiani, passati per le armi come rappresaglia dopo la cattura e la sparizione di quattro collaborazionisti, tra cui il figlio di un colonnello a capo di una caserma locale, la Silvestri, se ne trovano. Ma Nazzarena Boaretto, che oggi ha 88 anni e vive a Cervesina, nell’Oltrepo pavese, ha deciso di andare oltre e di mettere in fila i ricordi della ragazzina che fu.
Così ha scritto un libro, “Memorie di una vita“, se lo è autopubblicato distribuendolo tra amici e conoscenti e, a forza di passaparola, la voce dell’esistenza di questo volume che contiene anche fotografie si è diffusa. Dunque oggi Nazzarena torna nel Polesine, va nelle scuole, incontra i ragazzi e viene invitata anche all’Università di Padova. Perché la sua testimonianza riporta alla memoria una strage dimenticata, forse più di altre.
In quel pezzo di pianura che nel 1951 sarebbe stato sommerso da metri d’acqua del Po, fu sufficiente una lampada rimasta accesa perché i repubblichini puntassero su una cascina, a Castelguglielmo. Qui i partigiani nascosti furono riportati a Villamarzana, rinchiusi nella bottega del barbiere e, a gruppi di sei, trascinati in piazza dove finirono davanti a un plotone di esecuzione composto da dodici militari, per una metà in piedi e per l’altra in ginocchio. Poi i corpi furono lanciati sul cassone di un camion che se li perdeva strada facendo e buttati all’interno del cimitero di Villamarzana, senza essere seppelliti.
Dopo il massacro, i repubblichini non si accontentarono. Il giorno dopo fu preso anche il cugino di Nazzarena, Bruno Boaretto, catturato a causa di “una soffiata mentre si recava dalla morosa nel paese di Costa”. Preso a bottigliate, percosso e torturato con la fiamma delle candele sotto i piedi, alla fine crollò rivelando ai suoi aguzzini dov’erano sepolti i quattro fascisti. “Non appena confessò – scrive Nazzarena di Bruno – sicuro della sorte che gli era stata riservata, ebbe solo la forza di chiedere […] di essere ucciso sulla tomba di sua sorella [e] gli venne concesso”.
Poi fu preso il parroco del paese, don Vincenzo Pellegatti, che rischiò di essere ucciso sull’altare mentre celebrava la funzione del mattino, e il segretario politico di Villamarzana, Primo Murari, insieme al figlio e nipote, accusato di eccessiva compiacenza con i partigiani. Ci fu quindi la madre di due adolescenti, 14 anni uno e 15 l’altro. Il famigerato maresciallo “Bomba” le fece una proposta: “Scegli tu quale dei due figli vuoi che ammazziamo, sicuramente almeno uno dei due”. Ma la donna non ce la fece a decidere quale salvare.
Perché dopo tutti questi anni, in età avanzata e con i postumi di una frattura al femore, rimettersi in gioco per raccontare questa storia? “Lungi da me voler dare giudizi – scrive Nazzarena Boaretto all’inizio del suo libro – tanto meno fare considerazioni finali su ciò che è stato ed è accaduto nel bene (poco) e nel male (tantissimo)“. Il suo diario è “piuttosto un invito a tutti coloro che lo leggeranno oggi o negli anni a venire a prenderlo come un impegno morale affinché in futuro non possano più succedere cose come quelle di cui io stessa sono stata involontariamente testimone oculare […] rubandomi la gioia e la spensieratezza della mia giovinezza”.