Noel Gallagher non è mai stato, né sarai mai, solo il fratello litigioso, l’ex qualcosa, la testa calda. Noel Gallagher è “il miglior cantautore della sua generazione”, e la definizione non è nostra ma di Sir George Martin, il produttore dei Beatles. E con il trionfo ottenuto con gli Oasis e la meritatissima fama di cui gode in Gran Bretagna e all’estero, Noel avrebbe potuto mollare la presa, godersi famiglia e denaro e magari piazzare un ritorno clamoroso dopo 10 o 20 anni. Se l’Inghilterra fosse l’Italia, probabilmente nel 2040, dopo aver campato di Siae e pubblicato qualche discaccio, Gallagher avrebbe organizzato un tour con Damon Albarn chiamato “Ammiragli coraggiosi” (lì la marina è una roba seria!) per fare cassa e rinverdire i vecchi fasti. Invece no: l’Inghilterra non è l’Italia e Noel Gallagher non ha mai avuto intenzione di interrompere la propria carriera dopo l’abbandono degli Oasis e si è subito buttato a capofitto nella nuova avventura con gli High Flying Birds. Certo gli Oasis restano inarrivabili, musicalmente ma anche per quello che hanno rappresentato nella cultura popolare britannica (e dunque mondiale) a cavallo tra i Novanta e i Duemila, ma Gallagher resta il cavallo di razza di sempre, senza perdere nemmeno un briciolo di quella forte personalità che lo ha sempre contraddistinto.
Lo ha confermato di nuovo lunedì al Sziget Festival di Budapest, dove ha letteralmente mandato in visibilio migliaia di persone con una tracklist che mischiava sapientemente il repertorio degli Oasis e quello degli High Flying Birds. Non si è esibito alle 21.30, perché i tempi sono cambiati e ci sono nomi che per richiamo e successo commerciale occupano lo slot, ma dalle 19.30 alle 21, il cantautore di Manchester è riuscito a mostrare una volta di più il proprio talento senza scadere mai nella facile operazione nostalgia che è da sempre una carta vincente da giocare. Gli anni Novanta, poi, sembrano essere tornati prepotentemente di moda, prendendosi anche una rivincita inattesa sugli Ottanta, che fino a oggi avevano goduto di migliore pubblicità. A un signore come Noel Gallagher, però, non servono questi espedienti di marketing. Lui non viene in Italia a giocare con la Nazionale cantanti accanto a Moreno o Il Volo come ha fatto lo scorso anno il fratello Liam. Lui è Noel Gallagher e per lui parlano le canzoni che ha scritto.
Il pubblico del Sziget apprezza, partecipa, si lancia in appassionati sing-along sulle note dei successi di un tempo ma anche dei brani degli High Flying Birds, a riprova che Noel vive e si nutre di contemporaneità, mica di ricordi. Alla fine, giocoforza, arrivano Masterplan, Wonderwall e Don’t look back in anger, a sugellare un’ora e mezza di ottima musica senza troppi fronzoli. È old school, il Nostro. Visual efficaci ma essenziali, presenza scenica che è quella dimessa ma colma di fascino di sempre. Con il pubblico è cordiale ma in modo burbero, quasi a voler ricordare agli altri e a se stesso che lui è lì trasformare in canzone le meraviglie che scrive, mica per lanciare qualche “Are u ready?” o peggio ancora qualche coretto scemo per creare un’attenzione che altrimenti non ci sarebbe (vedi i Kaiser Chiefs, esibitisi prima di Gallagher e alla disperata ricerca di un contatto con il pubblico che c’è stato poco o niente).
Noel Gallagher è una ricca pagina della storia già ricchissima della musica inglese. E la cosa migliore è che non è affatto una pagina conclusa, pronta per essere archiviata e poi snocciolata di tanto in tanto quando parte l’ineguagliabile declamazione dei grandi della musica britannica. Lui è ancora qui, continua a scrivere e a musicare, a impegnarsi in nuovi progetti discografici. Perché uno come lui, che ne ha viste di ogni sin da piccolo e che non ha mai fatto pace neppure con se stesso, sa bene che è la musica ad averlo salvato più volte e che probabilmente è destinata a salvarlo fino all’ultimo. Allentare il rapporto con la musica vorrebbe dire smettere di essere Noel Gallagher, imborghesirsi, diventare un baby-pensionato di lusso come nel mondo della musica ce ne sono a bizzeffe, anche a livelli altissimi. Forse aveva ragione sir George Martin. Forse Noel Gallagher è davvero il miglior cantautore della sua generazione. E forse è il Paul McCartney dei giorni nostri, ma questo non lo possiamo dire, perché anche sir Paul continua a darci dentro come un ragazzino e a regalare al pubblico di mezzo mondo live indimenticabili di tre ore. Perché i veri grandi fanno così. Ecco perché.