“Dedico questa medaglia alla mia famiglia e alla mia compagna Diletta…“. Così, senza soluzione di continuità, Rachele Bruni ha dedicato la sua medaglia d’argento alla donna amata, alla persona che ha condiviso i sacrifici imposti dalla quotidiana preparazione alla gara olimpica. Lo ha fatto senza nulla concedere alla retorica e all’esibizionismo mediatico di chi, pur di guadagnare un frammento di visibilità, sarebbe disponibile a mettere in piazza i sentimenti più intimi, le emozioni più indicibili.
Per Rachele, come è giusto che sia, quella medaglia andava dedicata agli affetti più cari e così ha fatto, perché, per lei, quello era il gesto più naturale, il più ovvio, quello che aveva nella mente e nel cuore. La sua semplicità e la sua naturalezza hanno persino smorzato le polemiche degli omofobi di turno, travolti dalla quotidianità di Rachele, dal suo rifiuto di diventare un’icona e, proprio per questo, ancora più urticante per chi si sente minacciato dalla sola esistenza di differenza e diversità. Forse costoro rimpiangono il tempo nel quale l’atleta omosessuale si limitava a a ringraziare i genitori e magari aggiungeva un timido accenno all’amico del cuore che non aveva mai fatto mancare la sua solidarietà. Una sorta di “donna o uomo dello schermo”, tanto cara agli ipocriti di ogni tempo e natura.
Se a qualcuno fosse sfuggito il concetto di “unione civile”, vada a rivedere le immagini e a riascoltare le parole pronunciate da Rachele Bruni, le confronti con i commenti dei suoi detrattori e scelga serenamente da che parte stare.