Politica

Sulla sinistra ha ragione Bertinotti

Leggo un’intervista all’ex presidente della regione Emilia Romagna Vasco Errani e risento le solite parole d’ordine del bersanismo. Mi pare anzi un bersanismo persino più velleitario: uno speranzismo, dal nome di Roberto Speranza, uno dei ‘leader’ della minoranza Pd che recentemente, tra le altre, ha detto di voler rifondare il socialismo europeo (sic). A sentire questi ragionamenti, che provengono certo da persone rispettabili ma che politicamente non colgono la matrice genealogica della situazione attuale, c’è da preferire l’analisi proposta da un altro leader della sinistra di governo, quel Fausto Bertinotti che prima si alleò (in verità si parlò all’epoca di ‘patto di desistenza’) con l’Ulivo e poi fece cadere il governo Prodi, presieduto da colui che solo, e per due volte, aveva battuto Silvio Berlusconi alle elezioni.

Bertinotti, della cui figura politica si può dire ciò che si vuole (e se ne deve dire anche male, visti i risultati e ciò che produsse la sua dirigenza, ovvero lo sgretolamento della sinistra radicale italiana), rivela più acume di coloro che ancora oggi sperano in una rimonta della sinistra attraverso una battaglia condotta dal di dentro, ovvero di tutti quelli che pensavano e pensano che la battaglia per le ragioni della sinistra si potesse fare e si possa fare appoggiando nell’ordine Monti, Letta, e oggi Renzi. Bertinotti infatti colloca dentro l’Ulivo la nascita del renzismo. È dentro quell’esperienza, che peraltro abbiamo voluto e votato, da sinistra o dal centro, sia per sconfiggere Berlusconi che perché ci sembrava che le ragioni dell’eguaglianza e della giustizia sociale potessero convivere con alcune istanze ‘liberiste’, e forse allora davvero potevano, poiché i tempi erano diversi e la crisi non aveva ancora mostrato il volto di morte delle politiche di distruzione del diritto del lavoro e del welfare; e perché i rapporti di forza consentivano soltanto un appoggio critico che era destinato in nuce a spezzarsi; è dentro quell’esperienza, dicevo, che covava il virus che poi avrebbe portato a ciò che oggi stiamo vivendo, una sorta di Terza via in edizione italica, ovvero fuori tempo massimo, fuori dalla storia. Posto che ci si era sbagliati anche sulla Terza via di Blair o sulle misure di Schroeder. Ma, e andando ancora al di là di quanto dichiarato da Bertinotti, in quella storia c’era anche il preludio della sconfitta della sinistra: indebolita, incapace di parlare alle masse e di rappresentarle, stava progressivamente introiettando tutti i codici semantici del dominio ‘neoliberale’ (qualunque cosa voglia dire oggi questa parola – secondo me poco, ma la uso per capirci). Poteva andare diversamente? No, non poteva. Nessuno avrebbe potuto invertire quella rotta.

Peraltro questa genealogia spiega anche in termini psicanalitici l’atteggiamento di Matteo Renzi, figlio di quella storia nobile ma già contaminata dalla malattia che avrebbe condotto alla situazione attuale. Renzi doveva uccidere (rottamare) il padre, rimuoverlo, e in particolare il padre più antipatico di tutti, di cui però si sentiva erede e figlio tanto quanto quel padre oggi sembra percepire Renzi come colui che egli avrebbe voluto essere e non è stato. Parlo naturalmente di Massimo D’Alema, quello con più sale in zucca di tutti, preso anch’egli dentro il vortice che ha travolto la sinistra italiana e globale. Se Renzi si richiama oggi a Prodi (che rispetto a lui era un gigante), il vero padre dell’Ulivo, è perché Prodi è investito di un alto valore totemico che non può essere bellamente messo in questione nei termini volgari della rottamazione: deve piuttosto muovere l’Acheronte contro di lui, i pugnalatori nell’ombra dell’urna.

Bertinotti fece a modo suo una battaglia contro quella deriva. Non so quanto avesse visto ciò che sarebbe accaduto, ma certo oggi ha ragione a dire che per capire questa storia è lì che bisogna guardare. Ed è lì che bisogna guardare anche per capire le ragioni della disperazione per una sinistra che a stento si risolleverà. Questo lo sanno Bersani, Errani, Speranza, Gotor; lo sanno tutti. Resta da capire se nei loro disegni c’è una battaglia dall’interno, da dentro i gangli vitali della decisione (battaglia difficile, rischio e allo stesso tempo alibi: venire catturati), oppure se è solo una lotta per la sopravvivenza politica. La loro.