A uno sguardo non condizionato dalla narrazione egemonica, il nesso che connette tra loro crisi e terrorismo risulta più robusto di quanto non possa apparire a prima vista. Si tratta, in entrambi i casi, di coerenti estrinsecazioni del paradigma del vivre dangereusement individuato da Foucault come cifra del sistema neoliberista. A contraddistinguere la crisi e il terrorismo sono le figure tra loro connesse della precarietà, dell’instabilità, dell’incertezza e del rischio. Il loro comun denominatore è la destabilizzazione, la messa in pericolo e il rovesciamento della normalità della situazione.
Più precisamente, il terrorismo figura come il versante politico dell’emergenzialità di cui la crisi è il côté economico. In entrambi i casi, la regolarità e la certezza, la sicurezza e l’ordine regolare sono sospesi e sostituiti da una condizione strutturalmente instabile e precaria, soggetta a eventuali rovesci imprevedibili e dagli effetti sconvolgenti. Ne scaturisce una condizione letteralmente inabitabile, centrata su una strategia della tensione globalizzata.
L’esistenza diventa pura sopravvivenza sempre a rischio. La progettualità dell’esserci come base di un’esistenza stabile e consolidata nella forma della piena occupazione del presente e della prospettiva futura è dissolta e sostituita dalla nuova figura dell’“esserci-ancora-appena” evocata da Anders in L’uomo è antiquato. La crisi è terrorismo economico e governamentale, proprio come il terrorismo si configura come una crisi della stabilità politica ed esistenziale. Ciascuno dei due poli si rovescia dialetticamente nell’altro: la crisi è terrorismo, e il terrorismo è crisi.
Entrambi, nella loro relazione biunivoca, si presentano come coerenti espressioni della “società del rischio” (U. Beck). In tutti e due i casi, la paura generalizzata legata all’insicurezza del futuro più prossimo si rivela un efficace strumento di governo: rende ancora più fragile e più instabile il servo precarizzato, giacché lo induce ad accettare, pur di sopravvivere, ciò che palesemente nuoce alla sua già svantaggiata condizione.
Anche da questa prospettiva emerge come la paura figuri sempre più come un metodo di governo, che rende docili e remissivi i sudditi e, dunque, più facili da disciplinare e da amministrare in forme che mettono in discussione gli stessi assetti democratici. In questa prospettiva, l’analogia tra la crisi come governamentalità terroristica e il terrorismo come crisi permanente risulta lampante. In termini generali, il paradigma governamentale della crisi come metodo di governo si ridispone in forma geopolitica mediante la figura concettuale del terrorismo.