La tesi è netta: il numero chiuso, in particolare per l’accesso alla facoltà di Medicina, è incostituzionale, viola il diritto allo studio e costringe anche i migliori studenti a iscriversi a corsi a pagamento se vogliono superare un esame che non misura competenze offerte dalla scuola. Oggi Il Fatto Quotidiano ha pubblicato la lettera al capo dello Stato Sergio Mattarella di una neodiplomata di Catania, Chiara Riscica, che sta pensando di andare a studiare in Belgio: pur avendo preso il massimo dei voti, ha capito che il suo liceo non le ha dato la preparazione necessaria ad affrontare il testa di medicina. E’ probabile che il suo pessimismo sia fondato: lo scorso anno il 52 per cento degli iscritti non è riuscita a raggiungere neppure i 20 punti (su 90) necessari a entrare nella graduatoria.
Vanno quindi aboliti i test di ammissione e le restrizioni all’accesso garantendo a tutti il diritto di provarci, almeno, a studiare all’università?
A favore del numero chiuso ci sono solidi argomenti di principio: poiché lo studente non sostiene l’intero costo della propria istruzione, il resto è a carico della fiscalità generale, cioè di tutti i contribuenti. Garantire a tutti il diritto di iscriversi all’università affidando poi la selezione agli esami significa accettare un numero molto più alto di immatricolati, in calo da anni, e i costi conseguenti. Tra l’anno accademico 2003-2004 e quello 2014-2015 gli immatricolati in Italia sono passati da 326.000 a 260.000, un tracollo che ha molte e complesse spiegazioni (la crisi, l’assenza di studenti stranieri, i travasi tra Sud e Nord, la scomparsa di studenti adulti lavoratori…). Togliendo il numero chiuso, le iscrizioni aumenterebbero di sicuro e ci sarebbe una redistribuzione, dalle facoltà aperte da sempre a quelle oggi “chiuse”.
I difensori del numero chiuso obiettano: spendere miliardi per garantire a tutti di “provarci” è iniquo. Le tasse universitarie sono relativamente basse (se confrontate con quelle private ma in linea o superiori rispetto ad altri Paesi), pesano molto su chi ha redditi medio-bassi e poco su chi viene da famiglie agiate. Ha senso sussidiare studenti ricchi poco motivati per concedersi un paio di anni a pascolare tra i corridoi? Non è meglio fermarli con un test? No, obiettano gli aperturisti: visto che gli studi sono pagati solo in piccola parte dalle rette e per il resto dalla fiscalità generale, l’equità è garantita dalla progressività delle tasse. Si possono sussidiare di fatto gli studenti ricchi perché, comunque, i loro genitori hanno pagato più Irpef (sorvoliamo sull’evasione).
Io però resto scettico sull’idea di abolire il numero chiuso. Per due ragioni. Primo: lo Stato deve investire sulla produzione di medici, avvocati, architetti, dentisti e perfino economisti facendo una ragionevole previsione di quanti laureati l’economia sarà in grado di assorbire. Se giurisprudenza avesse avuto più facoltà a numero chiuso negli ultimi vent’anni, oggi ci sarebbero meno avvocati sottoproletari che guadagnano poche centinaia di euro al mese in nero. Secondo l’ultima indagine Almalaurea, a un anno dalla laurea magistrale lavora l’81,3 per cento dei medici (facoltà a numero chiuso) contro una media del 55 per cento. A cinque anni dalla laurea, i medici che lavorano sono praticamente tutti, il 94 per cento, in fondo alla classifica i laureati in materie letterarie (65,9 per cento) e geo-biologiche (56,2).
Seconda ragione: siamo sicuri che gli esami siano un modo più equo di selezionare gli studenti rispetto a un test di ingresso che restringe la platea? Sulla base della mia esperienza universitaria non mi sentirei di sostenerlo. E non è certo soltanto il test l’unico momento in cui pesano gli “aiutini”, dai corsi a pagamento alle spintarelle ai benefici che derivano da un background famigliare elevato (come la conoscenza dell’inglese, i viaggi ecc), anzi. Agli esami le disuguaglianze si sentono ancora di più, come anche la nostra battagliera studentessa Chiara Riscica scoprirà.
Ultimo punto: gli stessi argomenti che giustificano l’abolizione del numero chiuso, si possono applicare all’abolizione di ogni controllo o sbarramento durante il percorso di studi. E’ forse più equo fermare un 20enne che potrebbe diventare un grande medico dopo un primo anno di studi tormentato invece che sbarrargli la facoltà con il test? Opinabile. Si arriverebbe così alla conclusione – da parecchi sostenuta – che dovrebbe essere il mercato del lavoro a fare la vera selezione. Se un avvocato non è capace di trovare clienti, se ne accorgerà a prescindere dal “pezzo di carta” che ha appeso in studio. Idem per un medico o un biologo o uno scienziato della comunicazione.
Non credo che sarebbe un miglioramento sociale, collettivo e individuale, rinviare i problemi di dieci anni, a spese dei contribuenti. Quindi, cari amici che vi preparate ai test o li avete sostenuti nei mesi scorsi, rassegnatevi: prima o poi dovrete confrontarvi con degli sbarramenti, con la scelta binaria tra riuscire e fallire. Con la possibilità che, magari, qualcuno che ritenete meno intelligente di voi ma regge meglio lo stress e non va nel panico di fronte alla scelta multipla, vi passi davanti.
Non è piacevole, ma funziona così. I test d’ingresso all’università sono la prima vera occasione di acquisire questa consapevolezza.
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