Fatema Mernissi era di una grande, esotica, ostentata bellezza orientale. Il suo naso aquilino e gli occhi sempre bistrati, i suoi abiti di foggia tradizionale e allo stesso tempo cosmopolita, ne facevano un simbolo orgoglioso dell’inversione dello stigma orientalizzante con cui gli occidentali guardano la donna ‘esotica’. Infatti, sebbene Mernissi – sociologa marocchina scomparsa l’anno scorso – potesse a prima vista incarnare esteticamente lo stereotipo della donna orientale, il suo lavoro era tutto teso a sovvertire questo schema, a ribaltare il cliché della donna bella e orientale, dunque sottomessa e muta. Proprio lei, tra la messe di studi su questi temi, ci ha regalato tesi provocatorie che oggi, nell’infuriare estivo del dibattito sul cosiddetto burkini, ci invitano a considerare il fatto che misurare il grado di illibertà altrui è sempre un’operazione a rischio. Forse la tesi più discussa di Mernissi, contenuta nel suo libro L’harem e l’Occidente, è l’equiparazione tra velo ‘orientale’ e taglia 42 in Occidente: l’immagine della bellezza in Occidente, sosteneva, può umiliare e ferire una donna tanto quanto il velo imposto da una polizia statale in regimi estremisti.

Oggi il caso è rovesciato: Valls decreta che il burkini è contrario ai valori della laicità francese in quanto simbolo di un’appartenenza religiosa che va a tutti i costi cancellata in nome della supposta neutralità. Inutile rimarcare quanto la neutralità liberale non sia affatto neutra, e quanto essa derivi piuttosto da un sistema religioso, filosofico, culturale, ben radicato proprio nella cultura occidentale. Ma siccome è del corpo delle donne che si parla, è evidente che ciò implica una sorta di tutela governativa nei confronti di soggetti che si presuppone siano vittime di una forma di coercizione: mettono il burkini perché sono ‘costrette’ dai loro uomini. Sono vittime di violenza? O di ‘violenza simbolica’? Con quest’ultima espressione mi riferisco a ciò che ha teorizzato il sociologo Pierre Bourdieu in un suo libro su Il Dominio maschile, ovvero a una forma ‘dolce’ di violenza che aggredisce le strutture simboliche e cognitive delle donne, costringendole a introiettare i codici semantici del dominio maschile. Insomma, le donne subalterne guarderebbero il mondo con delle lenti che gli uomini hanno costruito per esse. Si tratta di lenti deformanti, strumenti di dominio e coercizione.

È un tema di grande suggestione, che fornisce una chiave di lettura importante per tutti quei casi di donne che amano i loro aguzzini, o di persone sottomesse che condividono il punto di vista dei dominanti e perciò non si ribellano, ritenendo giusta e appropriata la loro condizione. Dunque le donne che usano il burkini lo fanno perché vittime di violenza simbolica? Esse hanno introiettato il dominio e sono convinte che il loro corpo vada nascosto alla vista? Difficilissimo dirlo. La violenza simbolica, pur essendo una chiave interpretativa meno rozza della semplice coercizione, poiché presuppone che vi sia una condivisione del dominio da parte delle sue vittime, può spiegare molte cose, ma ci fa correre il rischio-paternalismo o ‘maternalismo’, a secondo che a decidere del corpo delle donne siano gli uomini o, come talvolta accade, ‘altre’ donne stesse.

Come si fa a dire che il burkini è sempre e comunque una violenza sulla donna? Si ha l’impressione che a molti piaccia parlare a nome di soggetti da difendere, presupponendo sempre che essi abbiano bisogno di essere difesi. È chiaro che coprire una donna è un diktat che viene da società governate da uomini, spesso sessuofobiche, e che oggi la libertà delle donne occidentali è una minaccia per le strutture del dominio maschile, islamico certo, ma anche dello stesso Occidente. Tuttavia c’è chi sostiene si possa svuotare il patriarcato dal di dentro. È un metodo che non mi convince, perché rischia comunque di perpetuare quel dominio anche qualora lo si assuma solo per depotenziarlo.

Però è noto per esempio che il velo di alcune giovani musulmane francesi è stato usato anche come uno strumento assieme di emancipazione e di identità, come accadeva del resto con il simbolo del patriarcato durante la rivoluzione sessuale degli anni Sessanta: alcune donne occidentali presero la gonna e da indumento che imponeva ruoli e identità lo trasformarono ironicamente in un elemento di rivendicazione politica. Un metodo che non mi convince, ma tant’è. Far emergere la ‘voce’ delle vittime della violenza simbolica o della coercizione tout court è un’operazione a rischio, sempre sul filo dell’imperialismo culturale. Ciò che occorre è evitare il ventriloquio che sempre si dispiega quando si parla a nome di qualcun altro che non ci ha incaricato di farlo.

Se il burkini è una libera scelta, ovvero libera da coercizione fisica o simbolica, occorre rispettarla, ma come si fa a ‘misurare’ se lo sia davvero? Sapere se dietro quella libera scelta si nasconda qualche forma di violenza maschile, culturale, religiosa, invece, è un’operazione difficilissima. Senz’altro spesso sarà così, ma scoprirlo davvero richiede un’attività sul campo, che interroghi e abbia voglia di ascoltare, assumendo su di sé l’onore che si presume sia proprio delle società liberali: che ciascuno sia in grado di dire ciò che vuole fare della propria vita, e che goda del diritto di essere ascoltato.

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