La banca d'affari Schroders ha calcolato i ritorni che le famiglie ottengono, in termini di stipendi futuri, in cambio dei soldi pagati per rette e mantenimento dei ragazzi all'università. La percentuale può superare il 50%. Questo tipo di report, però, non tiene conto che nella Penisola molti lavoratori sono sotto inquadrati rispetto al livello formativo
Nel mondo delle banche d’affari tutto è valutato in base alla capacità di generare profitti. La banca d’affari Schroders ci prova persino con i figli, analizzando quanto può rendere l’investimento nell’educazione della prole. In realtà l’approccio è interessante, visto che spesso vengono diffusi studi sui costi del crescere i bambini ma raramente si considera quello che si può ricevere in cambio, al di là ovviamente alle soddisfazioni affettive ed umane. Schroders la fa però forse un po’ troppo facile. Soprattutto se il ragionamento viene calato nel mondo del lavoro italiano. Gli economisti hanno considerato infatti gli stipendi medi annui dei neolaureati, rapportandoli ai costi sostenuti dalle famiglie per l’università. E ne è emerso che il ritorno non è mai inferiore al 30% della somma investita.
Ad esempio le spese totali per una laurea quinquennale vengono stimati mediamente in 31.750 euro. Quando si trova un impiego lo stipendio medio annuo di un neolaureato è di 16.800 euro, ossia il 53% dell’investimento. Se invece si prende a riferimento l’università privata Bocconi di Milano, i costi di una laura magistrale lievitano fino a 85mila euro ma la prima busta paga pesa più del doppio: 44.346 euro l’anno.
Più in generale, lo studio rileva anche come le famiglie italiane investano relativamente poco nell’educazione dei figli. La spesa complessiva si ferma al 5,5% del Pil (meno di 9 miliardi di euro) a fronte di valori che arrivano al 6% in Spagna, Francia o Irlanda, si avvicinano al 7% in Gran Bretagna, Stati Uniti e sfiorano l’8% in Corea del Sud o Danimarca. Parte delle differenze è riconducibile all’impostazione pubblica o privata del sistema universitario, ma l’investimento italiano risulta in ogni caso relativamente modesto. Ed è un peccato, spiegano gli analisti di Schroders, perché una buona istruzione è un antidoto alla disoccupazione anche in fasi economiche poco felici come quella che l’Italia vive ormai da quasi un decennio. Lo evidenzia, dicono, uno studio della società di consulenza McKinsey secondo cui il 40% della disoccupazione giovanile non dipende dal ciclo economico ma da scelte di formazione sbagliate.
Questi studi enfatizzano molto il lato dell’offerta di laureati più che la loro domanda. Non sempre però l’approccio è corretto. Il ragionamento andrebbe capovolto o almeno affrontato da entrambi i lati. Se le imprese non chiedono laureati non c’è neppure l’offerta. E la domanda di laureati, soprattutto in materie scientifiche, proviene il larga misura da grandi imprese di cui l’Italia non abbonda. Per rendersi conto di come ormai neppure le lauree più quotate aprano automaticamente la porta di carriere adeguate basta leggere alcuni numeri raccolti dal Censis. I lavoratori italiani “sotto inquadrati”, ossia che svolgono mansioni più semplici rispetto al loro livello formativo, sono quasi il 20% del totale. In tutto più di 4 milioni di persone, il 41% delle quali laureate. Tra questi risultano sotto inquadrati il 44% dei laureati in scienze sociali e in materie umanistiche ma anche il 57% dei laureati in economia o statistica e il 33% degli ingegneri.
Questo non significa che l’istruzione non (ri)paghi e non faciliti l’accesso al mondo del lavoro. Ma troppo spesso lo fa in misura inferiore a quello che dovrebbe o che chi si impegna nello studio spererebbe. In ogni caso studiare conviene. Secondo il Centro Studi di Confindustria conquistare una laurea aumenta del 40% le probabilità di trovare un impiego rispetto a chi ha solo un diploma. Nel suo ultimo rapporto Almalaurea fotografa però una preoccupante divaricazione geografica. Trascorso un anno dalla fine degli studi nelle regioni del Nord è occupato il 74% dei laureati mentre nelle regioni del Mezzogiorno non si va oltre il 53%. La distanza si fa sentire anche in busta paga. Al Nord il primo stipendio è in media di 1.290 euro, al Sud di 1.088 euro. Negli anni il gap tende a ridimensionarsi ma non a sparire. Dopo 5 anni lavora l’89% dei laureati residenti nelle regioni settentrionali e il 74% di quelli che abitano al Sud. Le retribuzioni salgono rispettivamente a 1.480 euro e a 1.242 euro.
Resta il fatto che tra spese per gli studi e in alcuni casi per il trasferimento l’impegno per le famiglie è gravoso. Anche perché i costi si sommano a quelli generali sostenuti per crescere un figlio. Federconsumatori ha calcolato che da 0 a 18 anni, ossia subito prima che si aggiungano i costi universitari, si spendono tra i 113mila e i 271mila euro a seconda del livello di reddito del nucleo familiare. Ossia tra i 6.200 e i 22mila euro l’anno, una cifra aumentata di oltre il 20% negli ultimi 50 anni al netto dell’inflazione. Le famiglie italiane si possono consolare confrontando i budget per i figli con quello di altri Paesi. In Inghilterra la spesa per mantenere un figlio ha ad esempio raggiunto il massimo di sempre a 11mila sterline (14.500 euro) l’anno. Negli Stati Uniti essere genitori è ancora più impegnativo. In media, secondo un calcolo del Wall Street Journal, 20mila dollari l’anno che arrivano fino a 34mila per le famiglie ad alto reddito. Il dato più preoccupante è però la tendenza che in tutti i paesi considerati mostra un sensibile e continuo incremento della spesa.