Gregorio Corigliano è persona seria e stimabile. Ho letto con attenzione il suo pezzo, “Il Pd e la lezione americana”, Il Quotidiano del Sud, 13 agosto. E’ lucido e ci sono riflessioni interessanti: “Gli elettori americani progressisti sono tutti pronti per la lezione di Clinton e Sanders, capaci di riunificarsi per non spaccare il partito”. Negli Stati Uniti si ragiona così. “Dopo aver perso la battaglia, Sanders sta facendo di tutto per convincere i suoi supporter a votare per Hillary.” Da noi non capita più o quasi, è l’amara constatazione. Una fredda descrizione dei fatti.
Ciò detto, bisogna chiedersi perché – soprattutto nel nostro sud – sia difficile (impossibile?) seguire la lezione americana. Gli Stati Uniti hanno una storia, una cultura. Anche la Calabria. Il modo in cui certi fenomeni vengono vissuti nel meridione d’Italia è davvero incommensurabile con quello statunitense. Non si tratta banalmente della “questione mafia”; dell’esistenza di un potere che frena, per parafrasare il testo di Cacciari. No. La criminalità organizzata c’è anche in America. Eccome! Occorre ragionare su quanto (e fino a che punto) il progresso, la tecnica, il potere economico e l’evoluzione politica – a quelle latitudini – abbiano modificato il rapporto perverso mafia-politica, e l’intreccio d’interessi, e il costume, e la sensibilità comune, in uno scenario in cui grande finanza e politica siedono a capotavola e danno le carte.
Nessun osservatore (che abbia senno) escluderà che ci siano stati deputati americani collusi con la mafia. E’ un fatto. Il punto è che da noi non si tratta più di semplice collusione. Intere regioni sono sotto il dominio di poteri illegali; il controllo dei partiti – nonostante la presenza di persone oneste – è capillare; la società civile è sfiduciata. E’ ancora la politica (in Calabria) a utilizzare la mafia? Era vero ai tempi di Giolitti. Salvemini docet. Oggi è ancora così? Siamo, con tutta evidenza, al fenomeno opposto: in molte regioni – è cronaca – la mafia è scesa direttamente in campo, ha le redini in mano e comanda e ordina e decide. Uccide e decide. Primato della mafia sulla politica. Questa è la novità degli ultimi decenni. Alcuni capi corrente (non tutti, certo) di molti partiti, nelle province del sud, non sono più legati alla mafia: sono la mafia.
Combattono per un posto in giunta perché vogliono potere e denaro. Il resto non conta: il mare può restare inquinato, la disoccupazione aumentare, l’emigrazione spopolare i paesi, le statue dei santi inchinarsi ai boss – e che sarà mai! – il meridione restare agli ultimi posti in tutte le graduatorie che indicano il progresso, la vivibilità, la civiltà, il numero di libri venduti. Non conta nulla. Per la mafia che si è fatta politica conta solo il potere.
La politica non è servizio: la politica è – nella loro weltanschauung – “potere per accumulare ricchezza, e ricchezza per conservare il potere”, per usare l’immagine utilizzata da Bocca in altri contesti. E’ possibile chiedere a “questa” classe dirigente – caro Corigliano – di seguire la lezione americana? Di guardare all’interesse generale del Paese? Certo che è possibile! Come esercizio letterario, auspicio, speranza. Ci vuole ben altro, in Calabria, che un congresso di partito – di tanti, troppi partiti – per rimuovere la barbarie (e gli interessi) che ruotano intorno alla “Cosa pubblica” e al gioco politico che ne legittima il controllo. I tempi, per una rinascita – e una società più giusta (Rawls) – sono ancora lontani.