Hanno attraversato il deserto e il mare. Hanno camminato di giorno e di notte. Dopo altri 20 di traversata il viaggio di dieci profughi lungo 6mila chilometri si ferma al vetro di un Pronto Soccorso. Dove i medici di un ospedale milanese si sono rifiutati di visitarli. Motivo? Le “procedure”: gli accertamenti sanitari vanno fatti al Servizio igiene pubblica, che dopo le 15 – però – è chiuso. Risultato: l’indomani, quando l’ufficio riapre, otto su dieci sono già scomparsi nel nulla senza che nessuno abbia accertato se siano o meno portatori di tbc, scabbia o altre malattie. Così, mentre Como è al collasso per un numero spropositato d’arrivi e Milano non sa più dove metterli, succede anche che ci si scopra impreparati ad evitare un’ipotetica emergenza sanitaria. Lo racconta Diego Moretti, operatore dell’accoglienza che per quattro anni è stato direttore di un centro per richiedenti asilo di Milano, dove ha visto passare oltre 300 migranti. “Ma una cosa così, giuro, non era mai successa. Sarà anche una falla del sistema sanitario, ma per me la condotta dei medici sconfina nell’omissione di soccorso e nella discriminazione”.
I fatti. L’8 agosto un gruppo di profughi provenienti da Somalia, Etiopia e Comore sbarca a Catania. La Croce Rossa al momento dello sbarco, dopo aver fatto controlli di massa, scrive nel foglio di consegna che “non presentano sintomi riconducibili a malattie infettive” ma prescrive di procedere comunque alla “sorveglianza sindromica” presso il centro di accoglienza. Tra quelli indirizzati a Milano dieci vengono affidati dalla Prefettura a una cooperativa sociale afferente ad Ai.Bi, Amici dei Bambini, affinché possa prenderli in consegna e accoglierli nel centro migranti di Vizzolo Predabissi, nel milanese, dove già ospitano una ventina di persone tra cui 4 neonati e 3 piccoli bambini. Gli operatori li accolgono, gli danno da mangiare, gli fanno fare la doccia e danno loro abiti nuovi. Ma i profughi non stanno bene: “Avevano occhi arrossati, fastidio oculare, rash cutaneo pruriginoso, diffuso a mani e tronco, calazio, ascesso da infezione sugli arti e così sentiamo il parere del medico del centro che sconsiglia assolutamente di portarli nella struttura per non mettere a rischio gli ospiti e gli operatori ma di portarli al primo Pronto pronto soccorso, dato l’Ufficio d’igiene preposto agli accertamenti necessari era chiuso”, racconta Moretti. L’Ast di Rozzano, chiude infatti alle 15 e i profughi sono stati consegnati ad Aibi alle 14.30. Unico presidio medico di zona è il pronto soccorso, a un paio di chilometri. I profughi, condotti dagli accompagnatori, lo raggiungono a piedi anziché su mezzi pubblici proprio per alimentare in alcun modo il rischio infettivo. Ma una volta arrivati l’ultimo miglio del lungo viaggio si rivela inutile: invece di essere visitati, ai profughi viene sbarrata la porta. Perché?
Lo spiega al fattoquotidiano.it il responsabile del Pronto Soccorso e accettazione dell’ospedale Daniele Camisa: “questo è un servizio dedicato alle urgenze ed emergenze cliniche cioè ai pazienti che presentano sintomi improvvisi, verosimilmente significativi di malattie per cui è necessario trattamento immediato. Non è un servizio dedicato ad interventi di prevenzione, igiene e profilassi, né agli screening di massa su soggetti sani fino a prova contraria”. Cosa spiegata a voce e per iscritto anche agli operatori dell’Aibi. In quella comunicazione si legge: “in data 9/8/2016, intorno alle 19.15 si è presentato al Pronto Soccorso di questo Ospedale un gruppo di circa 10 Richiedenti Asilo, prevalentemente donne e bambini, di provenienza africana, accompagnati da un operatore/educatore di comunità”. Non c’era però alcun bambino, a riprova che proprio nessun medico o infermiere si è premurato di alzare o sguardo oltre quel vetro.
FQ – Mi conferma questa versione dei fatti?
DC – Sì, è vero. Non li abbiamo fatti entrare. Ma c’è un motivo di fondo: come ho spiegato agli operatori si sono rivolti al posto sbagliato. E’ come andare dal macellaio e pretendere di comprare bulloni. Per quegli accertamenti c’è il Servizio Igiene Pubblica presso il Dipartimento di Prevenzione dell’Ast.
FQ – L’Ufficio era chiuso, dove dovevano andare? A chi dovevano (e dovranno in futuro) rivolgersi gli operatori di un centro accoglienza migranti se c’è il timore di malattie infettive?
DC – Il problema è degli operatori. In questo caso si sono comportati come la maestra che va in ansia perché i bimbi hanno la febbre e li trascina tutti al Pronto Soccorso. I professionisti dovrebbero saper utilizzare correttamente i servizi sanitari e non comportarsi in modo emotivo.
FQ – Ma riferiscono che c’erano segni visibili di malattia: alla pelle, agli occhi, perfino una ferita alla gamba
DC – Possono pazientare una giornata, finché riapre l’Ufficio d’igiene. L’idea che i profughi siano portatori di malattie è un pregiudizio privo di fondamento scientifico. Chi riesce ad attraversare i deserti con mezzi di fortuna, a sopravvivere alla detenzione e alle torture o ad attraversare il Mediterraneo su una carretta per forza è sano, sennò morirebbe prima.
FQ – Vuol dire che se sospetto che mio figlio abbia la scabbia non ve lo devo portare?
DC – Se lei ha un sospetto sì, certo. Facciamo una visita per verificare le sintomatologia e i test necessari. Ma qui sono arrivati in 10 e accompagnati da un operatore che ci chiedeva di sottoporli a screening infettivo e noi non lo facciamo.
FQ – A due a due invece li avreste accolti? E’ una variabile numerica al famoso giuramento di Ippocrate?
DC – E’ chiaro che se ci viene portata una persona è un conto, ma se sono 10 alla volta significa che non c’è capacità di filtro da parte di chi li conduce in gruppo. Il gruppo si deve rivolgere all’Ufficio di igiene di cui io stesso ho fornito i contatti. E sono certo che avranno poi eseguito correttamente tutti gli accertamenti del caso.
FQ – Pare proprio di no. Quando l’ufficio ha riaperto, con tutta calma, 8 dei 10 profughi erano già spariti nel nulla
DC – Mi scusi ma anche questo non è un problema del Pronto soccorso. Ora devo andare, ho molti accessi da gestire in questo momento. Arrivederci.