Dal regista di Romeo + Juliet e Moulin Rouge (e purtroppo anche di Australia e Il grande Gatsby), non poteva che aspettarci l'ennesima follia, stavolta per la tv, fuori da ogni territorio fino a oggi esplorato dal regista australiano. E con Luhrmann le cose sono due: capolavoro o schifezza immonda
Baz Luhrmann è un pazzo scatenato, ma questo lo sapevamo già. Dal regista di Romeo + Juliet e Moulin Rouge (e purtroppo anche di Australia e Il grande Gatsby), non poteva che aspettarci l’ennesima follia, stavolta per la tv, per Netflix, fuori da ogni territorio fino a oggi esplorato dal regista australiano. E con Luhrmann le cose sono due: capolavoro o schifezza immonda, perché il Nostro non ha mai conosciuto le vie di mezzo.
Il ritmo è quello solito tumultuoso (non soltanto musicale) tra la golden age della disco music e quel nuovo strano modo di cantare, suonare e muoversi che sarebbe stato l’hip hop e il rap. Una colonna sonora clamorosa, che farebbe ballare chiunque, accompagna le vicende di un gruppo di ragazzi di colore che vivono nel South Bronx della seconda metà degli anni Settanta. Un’epoca difficilissima per la Grande Mela, messa a dura prova da degrado sociale e criminalità inarrestabile, e ancora più difficile, ovviamente, per gli strati più poveri della popolazione.
In questo contesto senza speranze, il giovane Ezekiel si fa travolgere dalla passione per le parole, che sgorgano dalla sua penna (e dalla sua bocca) con un impeto rabbioso a tratti commovente. Diventa MC (letteralmente “maestro di cerimonie”) per il deejay Shaolin, ma deve continuamente tentare a restare in equilibrio tra le regole della strada, con le sue inevitabili zone grigie, e la volontà di emergere, di cambiare vita, di lasciare il Bronx e magari di diventare qualcuno a Manhattan, che brilla dall’altro lato del fiume, che sta ferma lì a ricordare, a chi come Ezekiel sopravvive giorno dopo giorno tra le macerie del Bronx, che un mondo migliore esiste già, ed è a portata di mano se ti capita il colpo di fortuna che aspetti da troppo tempo. La fortuna che pare arridere a Mylene, fidanzata di Zeke, figlia dell’irreprensibile pastore portoricano Ramon Cruz, ma soprattutto nipote di Francisco “Papa Fuerte” Cruz, politico, uomo d’affari sempre sospeso tra legale e illegale, che tenta di migliorare le condizioni di vita della “sua gente”. “No matter what”, dicono gli americani, a qualunque costo. Mylene vuole diventare una star della disco music, ma il padre la costringe a cantare noiosi inni religiosi durante le funzioni. Solita storia di ribellione alla figura paterna, riscatto e pace fatta, insomma. Perché The Get Down (nel cui cast compare anche un delizioso Jaden Smith), usa tutti gli stilemi tipici del racconto seriale americano ma lo fa con il tocco originale e frenetico di Baz Luhrmann.
Il ritmo indiavolato (complice anche una musica più che adatta) permette allo spettatore di immergersi nella visione senza annoiarsi mai, neppure quando, a guardar bene, qualche difettuccio narrativo c’è. È quello che Luhrmann sa fare meglio, in effetti, visto che lo ha già fatto con Romeo+Juliet e Moulin Rouge, creando un legame così intenso e stretto con lo spettatore che niente riesce a scioglierlo, fino alla fine e oltre.
The Get Down racconta una comunità afroamericana e latina in perenne lotta per la sopravvivenza, tra gang criminali e musicali e famiglie piccoloborghesi che vogliono illudersi di vivere altrove, non nel South Bronx, e di poter chiedere ai figli una condotta irreprensibile, senza sbavature o invasioni di campo nelle onnipresenti zone grigie. E se narrativamente tutto sommato il prodotto finito tiene eccome, va ancora meglio sul fronte estetico e stilistico, con una vera e propria ode agli anni Settanta “à la Luhrmann”, però. Il cliché diventa stravaganza, eccesso, così come i costumi, le musiche, i costumi, gli scenari. Gli anni Settanta ci sono davvero tutti: la stagnazione economica, il degrado newyorkese, gli eccessi sessuali e chimici degli eccentrici di Manhattan, le paillettes e la palla stroboscopica a mascherare alla bell’e meglio uno dei periodi più difficili per l’America (e dunque per l’intero Occidente) dalla Seconda guerra mondiale. Chi si lamenta per la troppa carne sul fuoco e per il modo che eufemisticamente potremmo definire “azzardato” di cuocerla, evidentemente non conosce Luhrmann.
Per chi lo conosce, invece, The Get Down è girato e realizzato nell’unico modo possibile per il regista australiano: con una smisurata dose di passione. Anche solo per questo, The Get Down andrebbe vista tutta d’un fiato (dopo la prima puntata avrete voglia di fermarvi un attimo, ma resistete e andate avanti: non ve ne pentirete). O anche solo per la musica, coinvolgente fino all’effetto “Io ballo da sola” nelle vostre camerette o sul divano. E poi per il cast giovane e gagliardo, per una New York che le nuove generazioni non hanno conosciuto ma che fino all’arrivo di Rudolph Giuliani era lì, a simboleggiare un periodo di crisi che sembrava non dover finire più. E non è un caso che uno degli episodi migliori sia proprio quello ambientato durante il blackout clamoroso del 13 luglio 1977, che lasciò la Grande Mela in balia di una inedita oscurità e degli sfoghi rabbiosi e criminali della sua popolazione.
Per la seconda parte di questa prima stagione toccherà aspettare il 2017, e già dobbiamo ringraziare Netflix per aver puntato i piedi e aver chiesto a Luhrmann e agli altri capoccioni del progetto qualcosa da mandare in onda, dopo due anni e mezzo di produzione e una enorme quantità di quattrini spesi (120 milioni di dollari, record assoluto per Netflix). Per il momento pare ne sia valsa la pena. Ma Baz Luhrmann è così, signori: fa a modo suo, sfora sui tempi e sul budget ma quasi sempre sforna un gioiello. E The Get Down lo è, almeno fino a questo punto.