Doveva essere l’occasione per rimettere in moto la pubblica amministrazione, che con le sue disfunzioni è uno dei maggiori fardelli sulle spalle di cittadini e imprese. E invece, il decreto attuativo della riforma Madia sulla dirigenza pubblica rischia di trasformarsi in una mera operazione di taglio dei costi. Che per di più porta in dote una sorta di spoils system, il meccanismo americano che prevede giro di poltrone dei dirigenti pubblici al cambio di amministrazione. “Non mi sembra che il punto di questa riforma sia migliorare il funzionamento della macchina amministrativa – spiega Michele Gentile, sindacalista della Cgil responsabile della funzione pubblica – Mi sembra invece che l’unico problema sia la riduzione della spesa per gli stipendi pubblici e l’introduzione di una sorta di spoils system”. Il cuore delle preoccupazioni del sindacato è il meccanismo di valutazione che rischia di mettere le basi per una sorta di dipendenza dell’alta dirigenza pubblica dalla politica sancendo indirettamente la fine dell’autonomia amministrativa.

Ma quali sono le novità introdotte dal decreto appena approvato in consiglio dei ministri? Innanzitutto vengono istituiti tre ruoli (statali, regionali e comunali) in cui confluiranno i dirigenti pubblici (15mila in totale, esclusi sanità e funzione pubblica), nonché gli aspiranti funzionari che abbiano superato un apposito corso o concorso annuale. Solo gli iscritti al nuovo “albo” potranno partecipare poi ai bandi che saranno indetti dai diversi rami della pubblica amministrazione per selezionare i dirigenti di Stato, regione, enti locali e autorità indipendenti. Il 30% dei posti che saranno messi a bando verranno “riservati” agli attuali funzionari di prima fascia. Si tratta di una sorta di clausola di “salvaguardia”, inserita in extremis nel decreto, per una piccola fetta (500 persone in totale) dell’alta dirigenza che, come rilevano i sindacati, rischia comunque di doversi confrontare presto con esuberi e demansionamenti.

In secondo luogo, sulla carta, la riforma mette in concorrenza i vecchi dirigenti pubblici con una nuova ondata di potenziali funzionari. Tuttavia non è chiaro quali saranno i criteri di selezione che le amministrazioni saranno tenute a seguire nella definizione dei bandi. Con il rischio che l’aspetto del merito e dell’esperienza lavorativa, maturata magari anche nel settore privato, non venga adeguatamente tenuta in considerazione nei concorsi. E’ alta quindi la probabilità che il meccanismo di selezione degli amministratori cambi solo formalmente e resti ancorato a vecchie logiche di spartizioni politiche.

Ciò che invece muterà è la durata degli incarichi (non oltre i 4 anni, rinnovabili una sola volta) e il meccanismo di valutazione che determinerà almeno il 30% della busta paga del dirigente. Il decreto prevede una griglia con i vari aspetti dell’attività dirigenziale sottoposta a valutazione. A vigilare su tutto il nuovo sistema della dirigenza pubblica ci saranno tre commissioni di coordinamento (una per ruolo) composte da sette persone di cui cinque alti funzionari dello Stato (il segretario generale del Consiglio di Stato, il presidente dell’Anac, il ragioniere generale dello Stato, il Segretario generale del ministero degli Esteri e il capo dipartimento per gli affari interni e territoriali del ministero dell’Interno). Queste figure “non solo fanno parte – curiosamente – di pezzi di apparato pubblico non toccato dalla riforma, ma avranno, evidentemente, ben poco tempo da dedicare a compiti così delicati”, spiega il funzionario ministeriale Alfredo Ferrante su Formiche.net. Con queste premesse, insomma, il meccanismo di controllo rischia di essere flebile e incapace di incidere sul legame malsano fra politica locale e amministrazione pubblica su sui incomberà la scure di una valutazione potenzialmente non oggettiva e difficilmente controllabile dalle Commissioni. Senza contare la prospettiva anche dell’aumento di contenziosi.

I funzionari pubblici, che entreranno nel ruolo e non riusciranno a ricollocarsi, finiranno in un parcheggio. In questa fase, avranno diritto alla sola retribuzione di base (senza quindi il trattamento accessorio, che vale dal 40 al 70% dello stipendio) decurtata del 10% per ogni anno senza incarico. Da questo limbo, salva l’ipotesi di una nuova poltrona, si uscirà nel caso in cui il dirigente non partecipi a un numero minimo di selezioni oppure rimanga senza incarico per ben sei anni. In quest’ultima eventualità, per evitare di perdere il posto di lavoro, il dirigente potrà accettare un demansionamento evitando di uscire dalla pubblica amministrazione. E’ questa la misura che, se applicata correttamente, dovrebbe contribuire in maniera sostanziosa ad una riduzione degli esborsi per gli stipendi dei funzionari pubblici partecipando in maniera consistente al miliardo di risparmi atteso dal decreto Madia sulla dirigenza pubblica. Ma è anche il metro con cui misurare il decreto che non garantisce l’auspicato miglioramento di efficienza della macchina pubblica. Cioè quel cambiamento dell’amministrazione, a lungo atteso e promesso dal governo, per rendere più facile la vita a cittadini e imprese.

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