La parabola è decisamente discendente. I dieci episodi della seconda stagione, televisivamente un capolavoro indiscusso, sono una lenta ma inesorabile discesa verso l'abisso. A un certo punto della vicenda umana e criminale di Escobar, la cattura e la detenzione non erano più un'opzione percorribile. Aveva fatto troppo, si era spinto troppo oltre, così come troppi erano i corpi istituzionali, militari e di pubblica sicurezza della Colombia coinvolti in quindici anni di epopea criminale
“Pablo muore”, recitano le magliette promozionali fatte circolare da Netflix per il lancio della seconda stagione di Narcos, online dal 2 settembre. Perché in fondo non c’era da mantenere la suspense, visto che tutti sanno che fine ha fatto Pablo Escobar, il re del narcotraffico colombiano, uno che dagli anni Ottanta al 1993, anno dell’uccisione, ha tenuto in scacco la Colombia, ha irritato e non poco gli Stati Uniti d’America e ha gestito l’enorme traffico di cocaina che dal paese sudamericano si irradiava in tutto il mondo. Pablo muore, dunque, e la seconda stagione della serie non poteva che concludersi così. Ma in mezzo ci sono dieci episodi pieni di colpi di scena, tensione, bombe e proiettili, a ricreare il clima terribile in cui la Colombia era costretta a vivere.
Rispetto alla prima stagione, la seconda presenta un Pablo Escobar decisamente diverso. Se prima, infatti, el Patron si sentiva ed era considerato come un Dio, dotato di un potere pressoché illimitato di vita e di morte su chiunque, capace di far saltare in aria palazzi e addirittura aerei in volo, di muovere milioni di dollari, di corrompere chiunque con la nota alternativa “plata o plomo” (denaro o piombo: o ti fai comprare o ti uccido), adesso la parabola è decisamente discendente. I dieci episodi della seconda stagione sono una lenta ma inesorabile discesa verso l’abisso. Pezzo dopo pezzo, la fitta rete di Escobar si disfa, cede sotto i colpi congiunti del governo colombiano del presidente Gaviria, degli sforzi della DEA, delle trame spesso poco limpide della CIA, degli avversari del cartello di Calì, pronti ad approfittare delle difficoltà di Escobar, delle forze paramilitari che, imbeccate dagli americani, a un certo punto smettono di combattere contro le FARC nella giungla e concentrano i loro sanguinosi sforzi nella cattura del Dio di Medellin.
Tutti, nessuno escluso, si trovano fianco a fianco contro il cartello: sinceri democratici che vogliono un futuro migliore per la Colombia dopo anni di vera e propria guerra, narcotrafficanti che vogliono solo la ricca torta di Escobar, gli americani (buoni e cattivi, perché nella serie ci sono giustamente entrambi i tipi di “gringos”) che sono invischiati fino al collo nella guerra alla droga partita sotto Reagan e andata avanti con Bush e Clinton. È una lunghissima e a volte estenuante caccia all’uomo condotta tentando di fare tabula rosa attorno a quello che era stato l’uomo più potente di Colombia.
Nella seconda stagione cambiano scenari e ritmi, dunque, perché Pablo Escobar, interpretato magistralmente dall’attore brasiliano Wagner Moura (che ha migliorato il suo spagnolo, alleluja!), è un topo in trappola. Dopo la fuga da La Catedral, la bislacca prigione che si era persino costruito da solo e dove scontava la “pena” tra mille privilegi, il narcotrafficante comincia a nascondersi di casa in casa: prima le solite ville sontuose, con famiglia al seguito, poi in posti sempre meno da miliardari. L’Escobar di Wagner Moura è un uomo arrogante, che non accetta le sconfitte, nemmeno le più piccole e all’apparenza insignificanti. È un uomo morbosamente legato alla famiglia, per salvare la quale è disposto a tutto, anche a mettere a rischio il proprio impero globale. E quando il governo di Bogotà fa in modo che la Germania non permetta a moglie, madre e figli del boss di entrare nel paese, Escobar si irrita così tanto da decidere di rispondere con un attentato sanguinoso nel centro della capitale colombiana, a pochi passi dal palazzo presidenziale. Perché Escobar è abituato a prendersi quello che vuole, in un modo o nell’altro, e quando arrivano i momenti bui, rimasto senza amici e senza complici nelle alte sfere, l’impotenza diventa frustrazione e la bestia ferita attacca indiscriminatamente pur di tentare l’ultima zampata.
Narcos, che televisivamente è un capolavoro indiscusso, ha anche il merito di affrontare una pagina arcinota ma controversa della storia recente e di miscelare sapientemente ricostruzione storica e fiction, senza cedere alla facile contrapposizione buoni versus cattivi ma analizzando tutte le sfumature. I cattivi sono cattivi, per carità, e Pablo Escobar è il cattivo per antonomasia; ma tra i buoni c’è uno spettro di infinite nuance che non possono essere taciute. L’obiettivo è comune, abbattere el Patron, ma ciascuno tenta di arrivarci a modo suo. La CIA scende a patti con i sanguinari gruppi paramilitari di estrema destra; il Bloque de Busqueda, creato ad hoc, utilizza metodi non proprio ortodossi e non si preoccupa affatto dei “danni collaterali” (come l’uccisione di ragazzini, giusto per citare una delle scene più crude della stagione); i due agenti della DEA protagonisti della serie sono la cosa più simile a eroi positivi che possiamo trovare, ma anche loro sbandano spesso e volentieri, vacillano tra il fine ultimo e un minimo di integrità morale. È una frenesia frustrata e frustrante, quella che spinge l’eterogeneo gruppone dei nemici di Pablo Escobar: mai come in questo caso, il fine sembra giustificare i mezzi.
Il pregio migliore di Narcos è proprio quello di aver saputo raccontare questa storia incredibile in maniera onesta, sincera, senza tacere evidenti e innegabili sbandate dei “buoni” e, dall’altro lato, senza umanizzare troppo un uomo che umano non era. Il Robin Hood dei poveri di Medellin non era altro che un uomo assetato di potere e denaro, un povero che volle farsi re e puntava a diventare divinità e che usava l’enorme massa popolare della sua città per costruirsi un consenso vasto e protettivo per non cadere nella rete di chi voleva catturarlo.
Anzi, ucciderlo. Perché a un certo punto della vicenda umana e criminale di Escobar, la cattura e la detenzione non erano più un’opzione percorribile. Aveva fatto troppo, si era spinto troppo oltre, così come troppi erano i corpi istituzionali, militari e di pubblica sicurezza della Colombia coinvolti in quindici anni di epopea criminale. Pablo doveva morire. E con lui dovevano morire i segreti, le trame, le corruzioni. Negli ultimi 23 anni si sono susseguite sin troppe teorie complottarde sulla fine del Patron, ma per una volta la realtà è piuttosto chiara e va oltre qualsiasi delirio cospirazionista: Pablo Escobar è morto perché un gruppo eterogeneo di forze diverse, spesso distinte e distante, si è unito per farlo morire. Buoni e cattivi, poliziotti e criminali, agenti segreti e squadroni della morte: perché per porre fine a una delle storie criminali più note della storia non si poteva fare altrimenti.